Ernesto Ruffini
Ernesto Ruffini (San Benedetto Po, 19 gennaio 1888 – Palermo, 11 giugno 1967) è stato un cardinale, arcivescovo cattolico e biblista italiano. BiografiaNacque a San Benedetto Po il 19 gennaio 1888. Quinto di otto figli, è stato zio del politico Attilio Ruffini e prozio del giornalista Paolo Ruffini. Ruffini entrò a soli dieci anni nel seminario di Mantova, dove rimase fino al 1910. Nel settembre dello stesso anno conseguì la laurea in Teologia presso la pontificia Facoltà teologica dell'Italia settentrionale a Milano e l'anno successivo la laurea in Filosofia presso la Pontificia accademia di San Tommaso d'Aquino in Roma. Il 10 luglio dello stesso anno fu ordinato sacerdote. Il periodo romanoRuffini lasciò Mantova per recarsi a Roma, dove, dal 1911 al 1913 frequentò il Pontificio istituto biblico conseguendo il diploma di professore in Sacra Scrittura. Nel 1913 venne nominato professore di Introduzione biblica all'ateneo pontificio del Seminario Romano Maggiore (poi Pontificia Università Lateranense), dove continuò ad insegnare fino al 1932. Nel 1917 Benedetto XV gli affidò la cattedra di Scienze bibliche nel pontificio Ateneo di Propaganda Fide, ove insegnò pure fino al 1932. Negli anni della sua permanenza a Roma, gli furono affidati vari incarichi presso il vicariato e le congregazioni romane. Così, nel 1924 venne nominato delegato diocesano per Roma dell'Unione missionaria del clero, esaminatore del Clero romano, sostituto per la censura dei libri al Sant'Uffizio, consultore della suprema Congregazione del Sant'Uffizio e della Commissione biblica. Nel 1925 viene eletto prelato domestico di Sua Santità. Nel 1928 fu nominato da papa Pio XI, segretario della Sacra Congregazione dei seminari e delle università degli studi e consultore della Sacra congregazione concistoriale e, in quella sua nuova veste, preparò la riforma degli studi che, il 24 maggio 1931, culminò nella costituzione apostolica Deus scientiarum Dominus. Pio XI volle che l'Università Lateranense fosse la prima ad applicare la riforma degli studi e, così, nel 1930 nominò mons. Ernesto Ruffini prefetto degli Studi al Pontificio Ateneo Lateranense e poi, dall'anno accademico 1931-1932, come primo rettore della stessa Università Lateranense. In quel periodo, venne anche nominato consultore della Sacra Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari (1929) ed ebbe un ruolo importante nell'istituzione del Pontificio Ateneo Salesiano e nella espansione dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, sostenendo in questo progetto Padre Agostino Gemelli. Nel 1934, Pio XI lo nominò membro della Missione Pontificia al XXXII Congresso eucaristico internazionale di Buenos Aires, presieduto dall'allora segretario di Stato, cardinale Eugenio Pacelli, futuro papa Pio XII. Nel 1944 fonda a Roma, per i medici, l'Unione medico-biologica San Luca. Durante le vessazioni razziste esercitate dal fascismo contro gli ebrei italiani fu di aiuto ai tanti ebrei che cercarono di nascondersi per sfuggire alle persecuzioni naziste. In quegli anni mons. Ruffini viveva a Trastevere, presso il palazzo di San Callisto, che godeva dell'extraterritorialità. Nel palazzo si trovavano la congregazione del Concilio, quella dei religiosi, quella dei riti e quella dei seminari di cui era segretario proprio mons Ruffini. In quell'edificio trovarono rifugio circa un centinaio di ebrei grazie all'accoglienza di diversi prelati, tra i quali, appunto, Ruffini.[1] La Guardia palatina, in un'occasione dovette resistere al tentativo di un gruppo di fascisti che voleva irrompere nei palazzi pontifici per catturare coloro che avevano trovato rifugio.[2] Fu vicino anche alle persone di cultura ed ebbe un particolare influsso nella conversione al cristianesimo del gran rabbino della comunità ebraica di Roma, Israele Zolli, con il quale aveva in comune l'amore per lo studio delle Sacre Scritture. Fu inoltre vicino alla famiglia di Enrico Fermi. Nella parrocchia romana di San Roberto Bellarmino, in piazza Ungheria, sono conservati i registri da cui risulta che l'allora mons. Ruffini il 5 dicembre 1938 - giorno prima della partenza di Fermi della sua famiglia per Stoccolma per ritirare il premio Nobel e da dove avrebbero proseguito per gli Stati Uniti – dapprima battezzò la moglie di Fermi, Laura (padrini Edoardo e Ginestra Amaldi) e successivamente celebrò anche il loro matrimonio secondo il rito cattolico (testimoni i due padrini e il prof. Ugo Amaldi). Il giorno dopo Fermi partì per Stoccolma a ritirare il premio Nobel e a un mese di distanza dalla promulgazione in Italia delle leggi razziali.[3] Arcivescovo di Palermo e cardinalatoNel 1945, Pio XII, in seguito alla rinuncia del cardinale Luigi Lavitrano, gli offrì la cattedra di San Mamiliano. Nominato arcivescovo di Palermo l'11 ottobre, fu consacrato vescovo l'8 dicembre 1945 nella chiesa di Sant'Ignazio a Roma, per l'imposizione delle mani del cardinale Giuseppe Pizzardo, prefetto della Congregazione per i seminari e le Università degli Studi, co-consacranti Domenico Menna, vescovo di Mantova, e l'arcivescovo Francesco Borgongini Duca, nunzio apostolico per l'Italia. Ruffini fu elevato alla Sacra Porpora il 18 febbraio 1946 con il titolo cardinalizio di Santa Sabina divenendo, fino alla nomina di Giuseppe Siri, il porporato italiano più giovane. Il 31 marzo fece il suo ingresso in una Palermo distrutta dalla guerra, contestualmente venne nominato amministratore apostolico dell'eparchia di Piana degli Albanesi. Nell'ottobre del 1950 presiedette, in qualità di legato pontificio il Congresso eucaristico nazionale e il Congresso delle vocazioni sacerdotali di Rosario in Argentina.[4] Nello stesso periodo gli venne conferita la laurea honoris causa in diritto dall'Università di Buenos Aires. Nel giugno del 1952, sempre nella veste di legato pontificio, indisse e presiedette il Concilio plenario siculo. Durante quegli anni, si prodigò incessantemente per la costruzione di centri di assistenza familiare, scuole materne ed elementari, ambulatori per ammalati in condizioni di povertà, villaggi per i senzatetto e per gli anziani. Fu così che sorsero il poliambulatorio arcivescovile per gli ammalati che non potevano usufruire delle prestazioni sanitarie pubbliche e della previdenza sociale, gli oratori arcivescovili, dove vennero raccolti e istruiti migliaia di fanciulli. In suo onore fu creato il quartiere Villaggio Ruffini, nel quale affluirono i palermitani che, allora, abitavano nelle grotte di Spirito Santo della Guadagna, di Via Perpignano, di Piazza Grande, dell'Albergheria, e nel quartiere Lo Cicero. Nelle zone più depresse della città fece sorgere centri sociali fece costruire dodici scuole materne. Per gli anziani impossibilitati ad essere accolti negl'istituti di pubblica beneficenza, creò il Villaggio dell'Ospitalità, dove trovarono alloggio 80 nuclei familiari. Per i bambini gracili e deperiti, fondò La Casa della Gioia, alle pendici del Monte Caputo, all'interno della quale funzionavano 5 classi elementari parificate. A Boccadifalco fece organizzare anche un centro di orientamento professionale. Ruffini e l'episcopato siciliano dichiararono autentica la Lacrimazione di Maria a Siracusa: «I Vescovi di Sicilia, riuniti per la consueta Conferenza in Bagheria (Palermo), dopo aver ascoltato l'ampia relazione dell'Ecc.mo Mons. Ettore Baranzini, Arcivescovo di Siracusa, circa la "Lacrimazione" della Immagine del Cuore Immacolato di Maria, avvenuta ripetutamente nei giorni 29-30-31 agosto e 1 settembre di quest'anno, a Siracusa (via degli Orti 11), vagliate attentamente le relative testimonianze dei documenti originali, hanno concluso unanimemente che non si può mettere in dubbio la realtà della Lacrimazione. Fanno voti che tale manifestazione della Madre Celeste ecciti tutti a salutare penitenza ed a più viva devozione verso il Cuore Immacolato di Maria, auspicando la sollecita costruzione di un Santuario che perpetui la memoria del prodigio».[5] Come struttura di supporto a tutte queste opere di carità, il 25 marzo 1954 fondò l'Istituto secolare[6] delle Assistenti Sociali Missionarie, che si preparavano alla loro attività nella Scuola superiore di Servizio sociale "S. Silvia", istituita dallo stesso cardinale e che continua ad operare nella sua missione a Palermo e in diverse città in Spagna e in Argentina. Nell'ottobre dello stesso anno proclama, a conclusione del Congresso Mariano Regionale, la solenne consacrazione della Sicilia a Maria Santissima. Il 9 giugno 1956 riceve la laurea honoris causa in filosofia dall'Università degli Studi di Palermo. Nel 1964 gli viene conferita la cittadinanza onoraria di Palermo, e il 31 maggio 1965 riceve il riconoscimento Pontificio dell'Istituto delle assistenti sociali missionarie da lui fondate nel 1954. Vi è un documento illuminante per capire le linee direttrici dell'azione pastorale che del cardinal Ruffini: la lettera autografa che papa Giovanni XXIII gli inviò il 13 giugno 1960 nel cinquantesimo anniversario del suo sacerdozio. Il Papa, dopo aver ricordato il suo apostolato romano, dove «con molteplici e assidue fatiche egli ha esercitato il suo ingegno e la sua volontà e, mosso da ardente amore per la Chiesa, ha cercato il suo maggior bene e la sua maggior gloria» , aggiunge[7]: «Chiamato poi al governo dell'Archidiocesi di Palermo e poco dopo annoverato nel Sacro Collegio dei Cardinali, con grande abnegazione e con costante solerzia hai compiuto e compi ancora i doveri del Tuo ufficio pastorale. La Tua alacrità e il Tuo zelo a favore della Chiesa sono apertamente attestati, in particolare dai due Seminari da Te eretti, dal Convitto Ecclesiastico "S. Curato d'Ars", dalle molte Chiese da Te costruite, dalla Cattedrale cui hai conferito nuovo decoro, dalle opere molteplici e provvidenziali con le quali hai sollevato le miserie della povera gente (...).» Ruffini, inoltre, mise in atto una vera mobilitazione per creare intorno alla Democrazia Cristiana l'unità politica dell'elettorato cattolico in funzione anticomunista.[8] Il Concilio Vaticano IIIl 22 dicembre 1959, il cardinale Ernesto Ruffini fu nominato membro della Pontificia Commissione Centrale preparatoria del Concilio Ecumenico Vaticano II; è plausibile che avesse discusso con Giovanni XXIII i lavori preparatori intrapresi sotto Pio XII in un incontro avvenuto il 3 novembre precedente[9]. L'11 febbraio 1960, Ruffini inviò alla Commissione antepreparatoria del Concilio un documento contenente i suoi desiderata per l'imminente Concilio, come richiesto dalla stessa Commissione.[10] Il Concilio fu aperto in San Pietro l'11 ottobre 1962 e il cardinale Ruffini fece parte del Consiglio di Presidenza e partecipò attivamente al suo svolgimento per tutto l'arco della sua durata tra il 1962 e il 1965. Al Concilio Ruffini fu uno dei massimi esponenti dell'ala conservatrice del Coetus Internationalis Patrum. Come ricordano le cronache del tempo, il cardinale Ruffini pronunciò in aula più discorsi di tutti gli altri membri dell'assemblea, avvalendosi del diritto dei cardinali di prendere la parola per primi in apertura di congregazione generale. Tenne complessivamente trentadue orazioni a cui devono aggiungersi tre interventi scritti, tutti pronunciati nel più classico latino. Durante lo svolgimento del Concilio, Ruffini si interessò particolarmente allo schema De Ecclesia, la futura costituzione Lumen Gentium, nonché allo schema De Ecclesia in mundo huius temporis, la futura costituzione Gaudium et Spes. Negli anni del Concilio, Ruffini cercò di mediare ai fedeli della sua arcidiocesi i temi che venivano discussi nel Concilio. In tal senso si pone la lettera pastorale Migliorare e crescere del 25 marzo 1965, che rappresenta, inoltre, la migliore chiave di lettura della sua visione del Concilio Vaticano II. Le posizioni di Ruffini di fronte alla mafiaRuffini, lombardo di nascita e fino ad allora romano d'adozione, a Palermo dovette affrontare un clima ed un ambiente che aveva purtroppo ampiamente sottovalutato il fenomeno mafioso. In un'intervista rilasciata nel 1959 sulle pagine de La Stampa[11]), Ruffini affermava: «Qui abbiamo problemi enormi da risolvere, pensi a cosa è la mafia, alla sua rete di delitti. Già i mezzi per combatterla sono insufficienti e come se non bastasse arriva una nuova amnistia. Faccia il calcolo di quante amnistie sono state concesse dalla fine della guerra, una ogni due anni» Dopo pochi anni, il 30 giugno 1963, la città di Palermo fu resa tristemente nota per la sanguinosa strage di Ciaculli, che costò la vita di sette uomini tra poliziotti e carabinieri. Fu proprio in occasione di questo evento che il pastore della comunità valdese di Palermo Pietro Valdo Panascia fece affiggere un manifesto in cui, pur non utilizzando mai il termine “mafia”, condannava apertamente l'avvenuto e faceva appello[12] «[...] a coloro che hanno la responsabilità della vita civile e religiosa del nostro popolo, onde siano prese delle opportune iniziative per prevenire ogni forma di delitto, adoperandosi con ogni mezzo alla formazione di una più elevata coscienza morale e cristiana, richiamando tutti a un più alto senso di sacro rispetto della vita e alla osservanza della legge di Dio che ordina non uccidere» Dinanzi ai fatti di Ciaculli, il cardinale Ruffini espresse il suo cordoglio inviando due telegrammi al comandante della VI Brigata dei Carabinieri di Palermo e al Prefetto.[13] Nel primo dichiarava: «esterrefatto per crimine inqualificabile causante tragica morte Carabinieri et militi difensori ordine pubblico, condivido lutto cittadino mentre invoco solleciti provvedimenti. Porgo vive condoglianze desolate famiglie assicurando mia solidarietà nel dolore» Nel secondo, indirizzato al Prefetto di Palermo, diceva: «con immenso dolore et indignazione apprendo delitto crudelissimo cagionante morte sete eroici difensori ordine civile et ferendone altri, mentre lamento continuazione criminalità disonorante diletta Sicilia, sento gravissimo lutto come mia personale sciagura et condividendo universale deplorazione pregoLa interpretare miei sentimenti presso famiglie vittime carissime» Da pochi giorni era stato elevato al soglio pontificio papa Paolo VI e l'eco della strage giunse fino in Vaticano; il 5 agosto 1963 giunse al card. Ruffini una lettera di mons. Angelo Dell'Acqua[14]: «Come è noto all'Eminenza vostra reverendissima, la Chiesa Evangelica Valdese, ad iniziativa del Rev. Pastore Pier Valdo Panascia di Palermo, ha pubblicato lo scorso mese in codesta Città un Manifesto per deplorare i recenti attentati dinamitardi che hanno provocato numerose vittime fra la popolazione civile. Nel segnalare detta iniziativa all’attenzione dell’Eminenza Vostra, mi permetto di sottoporre al suo prudente giudizio di vedere se non sia il caso che anche da parte ecclesiastica sia promossa un'azione positiva e sistematica, con i mezzi che le sono propri – d’istruzione, di persuasione, di deplorazione, di riforma morale – per dissociare la mentalità di così detta mafia da quella religiosa e per confortare questa ad una più coerente osservanza dei principi cristiani, col triplice scopo di elevare il sentimento civile della popolazione siciliana, di pacificare gli animi e di prevenire nuovi attentati ala vita umana» La risposta di Ruffini a mons. Dell'Acqua fu in qualche misura risentita.[15] «La Sua lettera del 5 c.m. mi raggiunge qui dove trascorro alcuni giorni di riposo. Conoscevo già il Manifesto pubblicato dal Pastore valdese: iniziativa molto facile, che ha lasciato il tempo di prima! Mi sorprende alquanto che si possa supporre che la mentalità della così detta mafia sia associata a quella religiosa. È una supposizione calunniosa messa in giro, specialmente fuori dall'Isola di Sicilia, dai socialcomunisti, i quali accusano la Democrazia Cristiana di essere appoggiata dalla mafia, mentre difendono i propri interessi economici in concorrenza proprio con organizzatori mafiosi o ritenuti tali.» È evidente che la risposta di Ruffini tradiva una certa irritazione per aver dovuto smentire qualunque commistione tra la fede cristiana e qualsivoglia mentalità criminale o mafiosa. In tale prospettiva, proseguiva Ruffini nella sua risposta a Dell'Acqua, «l'apostolato che viene svolto con assiduità in tutte le Parrocchie è in netta contraddizione con la delinquenza che qualunque forma rivesta è sempre riprovata e condannata, come è palese a tutti. L'azione, cui Vostra Eccellenza accenna, “d'istruzione, di persuasione, di deplorazione, di riforma morale” è tutt'altro che trascurata. Il bene che viene fatto per “elevare il sentimento civile della buona popolazione siciliana, pacificare gli animi, e prevenire nuovi attentati alla vita umana” non è eccezionale, come l'intervento del Pastore Pier Valdo Panascia, ma continuo. L'inchiesta in corso sulla mafia – che riveste un carattere marcatamente politico – non raggiungerà lo scopo voluto se non si provvederà a rafforzare la Polizia, dandole maggiori poteri. Sono incredibili le limitazioni poste alla vigilanza sul buon costume e alla difesa del vivere civile. Mi si assicura che al tempo del Fascismo – che a differenza di tanti antifascisti di oggi non ho mai visto di buon occhio – i delitti in Sicilia erano scomparsi; e non si può dire che il popolo fosse allora più cristiano di adesso. Si stanno facendo retate di persone più o meno sospette, ma si corre rischio di commettere ingiustizie disonorando persone oneste e recando indicibili pene a buone famiglie. Torno a dire che basterebbe dare alla Polizia quell'autorità che ha nei paesi più civili del mondo. Videant consules! Ma, per carità, non si creda nemmeno per sogno che la religione e la cosiddetta mafia sono consociate. […]» Sebbene il problema mafioso non sia stato del tutto compreso dal cardinale Ruffini, nessuna consapevole o colpevole omissione gli può essere addebitata.[16] L'anno successivo, il cardinale Ruffini affrontò pubblicamente il problema della mafia e, in occasione della Domenica delle Palme del 1964, pubblicò una lettera pastorale dal titolo Il vero volto della Sicilia che rappresenta il primo documento ufficiale di un vescovo siciliano e della Chiesa cattolica riguardo alla mafia. La lettera evidenzia un chiaro intento di difesa della Sicilia e di distinzione dei siciliani rispetto alla mafia: «Per l'appassionato amore che mi stringe alla verità e la profonda stima che andò sempre crescendo nel mio spirito per questa terra privilegiata sento di dover dire una parola che dissipi pregiudizi e rettifichi concezioni le quali più che la carità offendono la giustizia» La lettera si compone di tre parti: una confutazione della «grave congiura per disonorare la Sicilia», della quale i principali colpevoli sono la mafia, Il Gattopardo e Danilo Dolci. In particolare, Ruffini credeva che la Sicilia fosse stata «di certo contro le intenzioni dell'Autore….», diffamata dal romanzo Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Al riguardo, si domandava[17]: «È giusto fare della società di cento anni addietro la società di oggi? È giusto dar credito a un romanzo che un principe deluso compone nell'ultimo anno di vita e nulla sa trovare nella sua gente all'infuori dei difetti che sono anche i suoi?» A proposito di Danilo Dolci in Sicilia, Ruffini affermava[17]: «dopo più di dieci anni di pseudo apostolato questa terra non può vantarsi di alcuna opera sociale di rilievo che sia da attribuirsi a lui» Affrontando il tema della mafia, Ruffini scriveva: «Una propaganda spietata … ha finito per far credere … che i Siciliani, in generale, sono mafiosi, giungendo a denigrare una parte cospicua della nostra Patria, nonostante i pregi che la rendono esimia nelle migliori manifestazioni dello spirito umano» Inoltre, dopo aver riconosciuto – forse per primo – la mafia come «uno Stato nello Stato», scriveva: «Non può destare meraviglia che il vecchio, deplorevole sistema sia sopravvissuto: pur essendo cambiato il campo d'azione. Le radici sono rimaste: alcuni capi, approfittando della miseria e dell'ignoranza, sono riusciti a mobilitare gruppi ardimentosi, pronti a tutto osare per difendere i loro privati interessi e per garantire la loro supremazia nella orticoltura, nel mercato e nei più disparati settori sociali. Questi abusi sono divenuti a poco a poco tristi consuetudini perché tutelati dall'omertà degli onesti, costretti al silenzio per paura, e dalla debolezza dei poteri, ai quali spettavano il diritto e l'obbligo di prevenire e di reprimere la delinquenza in qualsiasi momento, a qualunque costo. Si rileva dai fatti che la Mafia è sempre stata costituita da una sparuta minoranza. La Sicilia è ancora lontana dall'avere quel benessere che le spetta; per troppo tempo è stata quasi dimenticata; sono necessari provvedimento che il popolo non può darsi da sé. Occorrono case, scuole – specialmente elementari e professionali – e fonti di lavoro. […] Urge che siano applicati con la dovuta energia e la maggiore sollecitudine i rimedi deliberati dalle pubbliche autorità – e altri siano presi se risultano necessari – perché scompaiano quanto prima la delinquenza e l'immoralità, sia individuali che associate» In questa prospettiva, alcuni storici difendono Ruffini affermando che il suo intento, più che a minimizzare il fenomeno mafioso era volto a distinguerlo dall'autentica sicilianità. L'eco della lettera giunse fino alla Città del Vaticano e il 16 aprile 1964 il cardinal Amleto Cicognani della Segreteria di Stato scrisse: «[…] due cose sembrano degne di encomio nel breve scritto pastorale della Eminenza Vostra: il proposito di definire e perciò ridurre nelle loro vere misure gli addebiti, che tante voci dell'opinione pubblica mettono a carico della gente siciliana, mostrando così come sia grande torto generalizzare a suo discredito elementi veramente deplorevoli, ma episodici e punto espressivi dell'intero volto dell'isola. Ed in secondo luogo è lodevole, è pastorale l'intento di Vostra Eminenza di voler in tal modo ammonire i veri e bravi siciliani a immunizzarsi dai difetti loro attribuiti, rinfrancando in se stessi una vigorosa coscienza morale e civile, la quale altro migliore alimento e sostegno non può avere se non nella fedeltà rinvigorita e rigenerata alla magnifica tradizione cristiana dell'Isola» Le reazioni a questa lettera furono molte e contrastanti fra loro e tra di esse molte addebitarono senza alcun fondamento a Ruffini di aver negato l'esistenza della mafia, che sarebbe stata un'invenzione dei comunisti. Al riguardo, valga l'analisi acutamente svolta dal Giudice Giovanni Falcone, che – in un articolo comparso su L'Unità il 31 maggio 1992, otto giorni dopo la sua morte – rilevava come negli anni del dopoguerra il fenomeno mafioso fosse stato totalmente sottovalutato sia da parte di tutti i mezzi di informazione, sia da parte di tutte le istituzioni dello Stato, politiche e giudiziarie[18]. Nel 1994 il cardinale Salvatore Pappalardo, arcivescovo di Palermo, in un'intervista rilasciata al Giornale di Sicilia il 25 febbraio di quell'anno[19] ha scritto: «Il Cardinale Ruffini, che tanti meriti ebbe a Palermo, per l'attività sociale che promosse, per i tanti e diversificati centri di servizio che aprì, tuttora operanti, per il lavoro che procurò e diede, sollecitando le autorità di allora, svolse certamente un'azione quanto mai efficace nei riguardi della mafia, anche se non ebbe a parlarne quanto dopo se ne è fatto. In fondo le opere valgono più delle parole. Non si può pretendere ora, quando tante cose sono meglio conosciute, che egli avesse allora così circostanziato il quadro di cosa fosse la mafia, e delle azioni che si potessero ad essa riferire.» Successivamente, lo stesso cardinale Pappalardo – nell'ambito della manifestazione svoltasi a Palermo il 14 dicembre 2000 “Conferenza politici ad alto livello per la firma della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale” – ebbe ad affermare: «ai fini di una retta valutazione dell'attenzione prestata dall'Episcopato siciliano all'elevato numero di omicidi e di rapine a mano armata perpetrati nell'isola, mi sembra significativo menzionare che i Vescovi, già fin dal Sinodo regionale del 1952, al tempo quindi del Cardinale Ruffini, avevano comminato la scomunica per quanti fossero stati gli esecutori e i mandanti dei suddetti delitti, e cioè la pena spirituale che comporta l'esclusione della comunità ecclesiale. Tale scomunica è stato confermata in due successive occasioni dalla Conferenza Episcopale Siciliana ed è tuttora operante nei riguardi di coloro che, anche in quanto mafiosi, continuano a porre in atto tali gravi comportamenti.» La morteRuffini, nelle ultime settimane di vita svolse le sue frequenti visite pastorali presso le nuove chiese parrocchiali della Mater Misericordiae e di San Paolo Apostolo a Borgo Nuovo. Presiedette la cerimonia d'erezione della nuova chiesa della Sacra Famiglia e la sera precedente al decesso si recò ad un incontro con i giovani dell'istituto Gonzaga, retto dai padri gesuiti. L'11 giugno 1967, alle 11,30 del mattino, morì nel cortile del palazzo arcivescovile di Palermo, dopo essersi recato a votare per le consultazioni elettorali per la Regione Siciliana. Ruffini non volle essere sepolto nella cattedrale di Palermo, ma nella chiesa della Madonna dei Rimedi. La lapide della sua tomba, per suo stesso desiderio, reca questa incisione: «Tanto amò la Madonna in vita che ha voluto essere sepolto accanto a Lei» La morte del card. Ruffini destò doloroso stupore nella Chiesa d'Italia e oltre. Paolo VI, nel suo lungo telegramma alla Chiesa di Palermo, se ne fece autorevole interprete[20]: «Colpiti nel profondo del cuore dalla inattesa repentina scomparsa del Card. Ernesto Ruffini Arcivescovo zelantissimo e sollecito di Palermo caduto come sul campo stesso della sua instancabile vastissima attività ci associamo in preghiera al lutto del Capitolo metropolitano del Clero e fedeli dell'intera Archidiocesi che lo piangono con unanimità di affetto e mentre ne ricordiamo commossi le alte benemerenze acquistate prima al diretto servizio della Cattedra di Pietro in delicati incarichi presso la Curia romana indi nel ministero pastorale di cui resterà a lungo memoria nei cuori e nelle opere invochiamo per la sua anima eletta il premio meritato da tanta abnegazione e da esemplare disinteresse e confortiamo il dolore dei figli con la Nostra particolare Apostolica Benedizione» Galleria d'immagini
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