La collezione Giustiniani è stata una collezione di opere d'arte sviluppatasi a Roma nel Seicento e appartenuta alla famiglia di origini genovesi dei Giustiniani.[1]
La collezione, iniziata già nel Cinquecento da Giuseppe Giustiniani ma poi accresciuta nel Seicento col mecenatismo dei figli Benedetto e Vincenzo, nonché dal pronipote Andrea, rappresentò di fatto una delle più grandi e importanti raccolte di Roma e d'Europa custodendo alcuni dei massimi capolavori della pittura europea del Seicento e divenendo nel contempo scuola e modello per le future raccolte collezionistiche.
L'elenco di opere comprendeva sia quelle archeologiche, di cui divenne noto la Galleria Giustiniana, libro di incisioni riprendenti l'intero inventario di antichità, che pittoriche, di cui il successo della quadreria fu dovuto principalmente ai dipinti commissionati al Caravaggio, di cui i Giustiniani furono i primi protettori assieme al cardinal Del Monte, oltre che ad altri artisti come Regnier, van Baburen, Domenichino, Jusepe de Ribera, Nicolas Poussin, Gerrit van Honthorst e altri.[1]
La famiglia Giustiniani ha origini genovesi, nati come aggregazione di alcune famiglie che intorno alla metà del Trecento erano state incaricate dal governo allo sfruttamento di alcuni territori insulari tra l'attuale Grecia e la Turchia (Chio, Cos, Samo, Icaria e Focea). Tali famiglie formarono un'associazione commerciale detta maona e nel 1362 decisero di associarsi in albergo, adottando "Giustiniani" come appellativo comune, derivante dal palazzo Giustiniani, la dimora genovese dove erano soliti riunirsi, chiamata così forse perché in precedenza di proprietà della famiglia veneziana Giustinian.[3][4]
Per quasi due secoli godettero del titolo di signori di Chio fino al 1566,[5] potevano battere moneta e gestirono il monopolio del commercio del mastice estratto dal lentisco e dell'allume, oltre a quello di sale, vino, seta e altre merci provenienti dal vicino oriente.[3][6]
Il 14 aprile 1566 Chio fu attaccata e conquistata dai turchi. Diversi notabili dell'isola furono catturati, i loro figli presi in ostaggio e diciotto di essi giustiziati. Tra i Giustiniani superstiti alcuni rimasero sull'isola, molti altri tornarono a Genova mentre altri ancora si trasferirono a Roma, dove daranno vita a una delle più importanti dinastie nobiliari del Seicento, in Sicilia, a Napoli o in altre città della penisola.
L'approdo a Roma dei Giustiniani
A Roma, dove già risiedeva il cognato e cardinale Vincenzo Giustiniani de Banca, generale dei domenicani del convento di Santa Maria sopra Minerva, chiesa che diverrà luogo di sepoltura di diversi esponenti della famiglia del ramo romano, si trasferì Giuseppe Giustiniani del Negro e consorte, Gerolama Giustiniani de Banca (i due facevano parte dello stesso casato seppur di due rami diversi, per altro frequente nelle dinamiche di famiglia), ultimo proprietario dell'isola di Chio che diverrà ben presto, grazie alle sue grandi ricchezze, uno dei banchieri più in vista della città.[7]
Tra i suoi figli, nati entrambi proprio sull'isola greca, vi erano Benedetto, primogenito, che divenne cardinale nel 1586, e Vincenzo, marchese di Bassano Romano e intellettuale, che continuò l'attività del padre, i quali diverranno noti per il possesso di una delle più importanti collezioni d'arte della Roma del Seicento. Nella città papale Giuseppe acquistò nel 1590 un sontuoso palazzo nei pressi di piazza Navona, adibendolo a edificio di rappresentanza dove alloggiò tutta la famiglia. Giuseppe vi rimase fino alla sua morte, avvenuta nel 1600, anno che coincide con il primo e più antico inventario della collezione d'arte di famiglia.[8]
La collezione del banchiere Giuseppe
Tra le prime opere entrate a far parte della collezione Giustiniani vi furono quelle del 1582 di Bernardo Castello, quindi l'Adorazione dei magi (oggi alla Walters Art Gallery di Baltimora) e la Predica di san Vincenzo Ferreri al Concilio di Costanza nella chiesa della Minerva.[9] Specificatamente alla seconda opera, compaiono tra i committenti anche Giorgio (fratello del cardinale Vincenzo) e forse Benedetto Giustiniani, che richiesero la tela per la chiesa di Santa Costanza di Roma, al fine di onorare la morte dello zio cardinale Vincenzo avvenuta nello stesso anno (nella scena sono raffigurati anche i ritratti dei committenti, compresi i figli di Giuseppe e il cardinale defunto).[9]
La quadreria Giustiniani appena nata comprendeva al tempo prevalentemente opere del Cinquecento italiano, quindi di Luca Cambiaso, Benvenuto Tisi da Garofalo, Bramantino, Lorenzo Lotto, Francesco Vecellio, Francesco Salviati, Bronzino, Paolo Veronese e altri.[10] Successivamente la stessa si arricchirà anche delle opere collezionate autonomamente dai figli di Giuseppe, Benedetto e Vincenzo: per distinguere l'effettiva appartenenza delle tele, sul retro delle medesime erano i sigilli identificativi del committente, quindi "GG" per Giuseppe, "BG" per Benedetto e "VG" per Vincenzo.
Alla morte di Giuseppe Giustiniani, nel 1600, viene stilato il primo inventario in assoluto della collezione (composta all'epoca da 108 dipinti),[11] la quale sarà interamente ereditata, con anche il palazzo, dal primogenito, il cardinale Benedetto.[12] La collezione Giustiniani apparirà nel Seicento frutto di due distinte raccolte, ossia dei due figli di Giuseppe, seppur tutta conservata (almeno nella parte pittorica) entro il palazzo Giustiniani di rappresentanza, dove avranno dimora sia Benedetto, i cui appartamenti privati occupavano la maggior parte dell'edificio, che Vincenzo, i cui appartamenti, una decina in totale (quattro sul piano nobile, altre quattro al secondo piano e due al piano terra), sono tutti rivolti sul lato posteriore che dà al Pantheon.[13]
Il cardinale Benedetto era un collezionista d'arte interessato per lo più a opere a tema religioso-cattolico,[14][12] richieste sia a Roma che Bologna, in quest'ultima città dove visse alcuni anni durante la carriera cardinalizia; nella sua attività sono frequenti anche commesse di opere pubbliche, come quelle della chiesa di Santa Prisca di Roma, dove fu lui stesso a commissionare le decorazioni della navata centrale con gli affreschi raffiguranti Apostoli, angeli e santi, realizzati dal pittore fiorentino Anastasio Fontebuoni nell'anno 1600, così come la pala dell'altare maggiore dello stesso anno, raffigurante San Pietro che battezza santa Prisca, opera del Passignano.[15]
La "Guardarobba" di Benedetto era collocata al terzo piano e in alcune sale del sottotetto di palazzo Giustiniani, mentre una parte della raccolta (43 dipinti in totale) erano conservati nella nota Galleria del piano nobile, tra cui: la Natività di Tiziano, la Madonna col Bambino e agnello di Ludovico Carracci (i Carracci erano presenti nell'inventario con cinque opere), il Cristo morto con due angeli di Paolo Veronese, il San Carlo Borromeo in preghiera davanti al crocifisso di Giovanni Lanfranco, Maria Maddalena nel deserto di Giovanni Andrea Donducci, tre tele del Ribera, San Pietro, San Giacomo e la Maddalena in estasi,[18] la cospicua serie di ritratti di Scipione Pulzone, quindi di Pio V, del cardinale Bessarione, di Gregorio XIII, di Sisto V, di Clemente VIII, del cardinale Montalto, del cardinale Aldobrandini, del cardinale Borromeo, ma anche opere di Barocci, del Cigoli, di cui un Cristo nel fiume Giordano (nella Galleria) e un San Francesco, del Bassano, di cui erano tre quadri con animali e paesaggi, di Jan Brueghel il Vecchio, di cui sei tele, del Caravaggio, che era presente con la Maddalena, il San Girolamo in meditazione (entrambi nella Galleria), il Cristo nell'orto, l'Incredulità di san Tommaso e il Ritratto di Benedetto, poi anche la Caduta di Lucifero (nella Galleria), nota in due versioni, una con l'Amore divino vestito con armatura e una con corpetto, di Giovanni Baglione (presente nella collezione con cinque opere), il Giudizio, il Diluvio, il Paradiso, l'Inferno, l'Adorazione dei magi e l'Incendio di Troia, quattro nature morte di Francesco Zucchi, registrate nello studio privato di Benedetto, un San Giuseppe e la moglie di Putifarre dell'Orbetto, undici tele sugli Apostoli di Francesco Albani e altre ancora.[12][19]
Nel 1621 Benedetto muore: gran parte della collezione (composta da 283 dipinti,[11][20] e solo qualche sporadico reperto d'antichità collocato nei giardini della villa del Popolo[21]) fu pertanto trasferita al fratello Vincenzo, quindi sia la raccolta ereditata dal padre così com'era (forse con solo qualche opera in meno rispetto al lascito originario) che le opere commissionate dal cardinale stesso, ad esclusione di quelle[13] destinate alla distribuzione agli amici fedeli, come al cardinale Ubaldini, cui andò un tondo con la Madonna col Bambino di Giulio Romano,[22] o come al cardinale Alessandro Montalto, cui andò l'Annunziata del Parmigianino.[23] La sepoltura avvenne dentro la cappella di famiglia intitolata a san Vincenzo, nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva a Roma, dov'erano già tumulati gli zii, il cardinale Vincenzo e Giorgio, il padre Giuseppe e i tre figli del marchese Vincenzo, morti prematuramente.[24]
La collezione del marchese Vincenzo
Vincenzo Giustiniani era un uomo colto, amante delle arti a 360 gradi, quindi della pittura, della scultura, dell'architettura, della letteratura teatrale e della musica, scopritore di talenti artistici nuovi e aperto a vedute stilistiche anche in controtendenza con quegli anni.[14]
La sua collezione era disposta negli ambienti di sua pertinenza all'interno del palazzo Giustiniani, costituendo di fatto i luoghi più noti e menzionati dai viaggiatori circa la collezione di famiglia: nelle quattro sale al secondo piano il marchese aveva dimora abituale, al piano nobile era la famosa "Galleria Giustiniani", lunga sala verticale condivisa col fratello Benedetto dov'erano i pezzi più importanti della collezione (nella quale il marchese tuttavia esporrà solo 16 dipinti della sua collezione, undici dei quali ereditati a sua volta dal fratello cardinale), due al pian terreno, di cui una adibita alla conservazione di marmi e bassorilievi antichi, mentre circa le tre sale che costituivano le famose "stanze de' quadri antichi" non è chiara quale fosse l'ubicazione, di certo si sa che erano ambienti dov'erano opere esclusive del marchese.[12]
Nel 1607 il marchese acquistò per 300 scudi sul mercato d'antiquariato di Roma la prima versione del Cristo portacroce (1514-1516) di Michelangelo, una statua non più in linea con gli orientamenti della Controriforma, e quindi rigettata dalla chiesa dove questa doveva insistere, Santa Maria sopra la Minerva, e reimmessa sul mercato d'arte privato. L'opera fu restaurata da un giovane Gian Lorenzo Bernini, scultore che sostanzialmente mancherà quasi del tutto nel catalogo Giustiniani, anche perché il marchese lo considerava eccessivamente oneroso.
La collezione di opere di antichità, che con il marchese avrà il suo exploit, arrivando alla sua morte a contare 1.100 pezzi,[21] era distribuita tra le varie proprietà immobiliari di famiglia.[25] Questa fu frutto della svolta classicista del Seicento romano, negli anni dopo quelli '20, quando si è esaurita l'eco della pittura caravaggista in favore di quella di autori come Poussin o di scultori contemporanei come Francois Duquesnoy, i quali proprio a partire da quel momento iniziano a comparire negli inventari Giustiniani: dello scultore francese sono registrati impegni per una Madonna col Bambino e un Mercurio (non rintracciati), mentre del pittore giungeranno nella raccolta tre dipinti oggi sparsi in diversi musei.[14] La collezione di antichità proveniva essenzialmente dai ritrovamenti dei reperti avvenuti durante gli scavi dei circondari su cui insistevano le proprietà immobiliari della famiglia, quindi a Bassano Romano, nei lotti circostanti ai palazzi romani, ma anche negli scavi per l'edificazione della chiesa di Santa Maria sopra Minerva, edificio di culto che risulterà centrale nella vita della famiglia, soprattutto grazie allo zio Vincenzo e al fratello Benedetto. Nella prima galleria del palazzo di rappresentanza, ampia 18×7 cm, erano sistemate almeno 247 opere, tra busti e sculture, disposte senza un ordinamento sistematico, in controtendenza rispetto ai gusti dell'epoca, che invece vedeva le sculture inserite in una cornice architettonica ad hoc (ad esempio entro delle nicchie, come accadeva per quelle della collezione Borghese o Ludovisi, tra le due più rilevanti in questo senso al tempo).[25]
Vincenzo divenne unico proprietario del palazzo di rappresentanza alla morte nel 1621 del fratello Benedetto, così come di quello a porta del Popolo e della villa di Bassano Romano; egli iniziò a commissionare opere più laiche che religiose, anche a soggetto stoico, come la Morte di Seneca di Joachim von Sandrart, la Morte di Cicerone di Francois Perrier, la Morte di Socrate di Josse de Pape (alias Giustino Fiammingo).[13] Nelle "stanze de' quadri antichi" di Vincenzo erano segnalate un numero particolarmente elevato di opere, tra cui alcune di Scipione Pulzone, di cui il San Vincenzo e il San Girolamo nel deserto, ben tredici tele di un giovane Jusepe de Ribera,[18] quindici di Francesco Albani (di cui Gesù, Maria, San Giovanni Evangelista, un Apostolo e altre undici già del fratello cardinale), diverse di Giovanni Baglione, tra cui le due versioni dell'Amor sacro e l'amor profano (di cui una che nell'inventario di Benedetto era titolato come Caduta di Lucifero), undici dei Carracci e soprattutto alcune opere del Caravaggio, con cui il marchese instaurerà un rapporto lavorativo che fungerà, assieme a quello che il pittore lombardo ebbe col cardinale Francesco Maria Del Monte, quest'ultimo amico dello stesso Vincenzo, il più importante trampolino di lancio del Merisi sulla scena artistica romana del Seicento.[12] Nelle stanze di cui sopra erano altresì esposti anche dodici busti di imperatori romani (i Cesari) del XVII secolo, già appartenuti a Benedetto, che saranno poi ricollocati nei secoli successivi entro la villa di Bassano Romano.[11]
Le commesse a Caravaggio
«[...] tanta manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori, come di figure.»
(Lettera di Vincenzo Giustiniani a Teodoro Amayden in cui parla di Caravaggio.[26])
Tra i sodalizi più riusciti e influenti nella storia dell'arte vi è senza dubbio quello avuto tra Vincenzo Giustiniani e Caravaggio, all'epoca già sotto la protezione del cardinale Francesco Maria Del Monte, che dai documenti di archivio risulta quasi sempre comparire il nome del marchese nei punti in cui è citato il pittore lombardo.[19] Vincenzo riuscirà a conservare presso la propria collezione ben quindici opere, costituendo di fatto, assieme a quella Borghese e quella cardinale Del Monte, una di quelle con il maggior numero di quadri del Merisi.[19] La prima commissione al Merisi fu quella del 1595-1596 con il Suonatore di liuto (oggi all'Ermitage di San Pietroburgo), soggetto che sarà replicato l'anno seguente dallo stesso autore per la collezione del Del Monte, a cui poi seguitò nel 1597 il Ritratto della cortigiana Fillide (oggi perduto).[27]
I rapporti di interscambio culturale tra il marchese e il cardinal Del Monte, quest'ultimo che dimorava nel palazzo Madama sito di fronte al nobile genovese, si strinsero ancor di più dopo che il Giustiniani acquistò la prima versione del dipinto del San Matteo e l'Angelo di Caravaggio, realizzata nel 1602 dal pittore la cui commessa avvenne forse per intercessione proprio del Del Monte. La pala doveva adornare l'altare della cappella Contarelli nella chiesa di San Luigi dei Francesi, sita nella stessa strada dove avevano dimora i due illustri, tuttavia la tela fu immediatamente rifiutata dalla Chiesa per motivi di decoro, a causa dei piedi ignudi di san Matteo nonché di alcune ambiguità che si riscontrano sui gesti dei due personaggi ritratti (il santo e l'angelo), pertanto l'opera venne acquistata dal marchese Vincenzo ed entrò a far parte delle sue collezioni.
Al 1602 risale un'altra grande commessa avanzata al Merisi, ossia quella dell'Amor vincit omnia, pagato dal committente 300 scudi.[28] Il quadro divenne subito, insieme al Suonatore di liuto, quello più bello e celebre della collezione Giustiniani, coperto dal marchese con una tenda di taffetà che veniva rimossa solo per illustri visitatori, tra i quali vi erano molti poeti gli dedicavarono epigrammi e madrigali, mentre Giovanni Baglione, rivale del Caravaggio, realizzerà su richiesta del cardinale Benedetto, nello stesso giro di anni, una propria (duplice) versione del soggetto dell'Amore divino, che era in contrapposizione con quello terrestre del Merisi (Amore terrestre).[28][29]
Tra le altre opere eseguite dal Merisi per i Giustiniani vi furono anche l'Incoronazione di spine del 1603, della quale è pressoché certa la paternità della commessa a Vincenzo, e un altro gruppo di tele che vengono invece assegnate alle volontà del cardinale Benedetto, quindi l'Incredulità di san Tommaso del 1600-1601, segnalata nella quadreria di Benedetto già durante i suoi anni a Bologna, il Cristo sul Monte degli Ulivi del 1604-1606, il San Girolamo in meditazione del 1605, un Sant'Agostino, la Maria Maddalena (in cui la santa è descritta nell'inventario del 1638 come «nuda, scapigliata e penitente») e il Ritratto del cardinale.[19][30]
Il marchese, grazie ai meriti personali di intenditore d'arte, ma soprattutto al ruolo ecclesiastico raggiunto da Benedetto, entrava a far parte in soventi occasioni nelle commissioni di valutazione di opere pubbliche:[18] in talune di queste circostanze, risulta quale valutatore anche di opere del Caravaggio, come nelle pale di Santa Maria del Popolo, o in quella di Sant'Agostino in Campo Marzio, o in Santa Maria della Scala, dov'è registrato in un pagamento in favore dello stesso pittore, di 50 scudi, a titolo di acconto, per il quale intercedette affinché questi completasse la realizzazione della Morte della Vergine,[24] tela che verrà poi completata nel 1604 circa ma comunque rifiutata (anch'essa) dall'ordine religioso perché il tema affrontato non appariva in linea con l'iconografia classica.
Alla morte di Vincenzo, nel 1638, venne redatto un inventario dal quale risultava che a quel momento la collezione disponeva di ben quindici dipinti assegnati a Caravaggio,[31] seppur ne sono stati identificati a oggi solo otto, tutti collocati nelle "Sale de' quadri antichi" di palazzo Giustiniani: il Suonatore di liuto, il San Girolamo in meditazione, l'Incoronazione di spine, il San Matteo e l'angelo, il Cristo nell'orto, il Ritratto di Fillide, l'Amor vincit omnia e l'Incredulità di san Tommaso, a cui si aggiungono il Ritratto del cardinale Benedetto Giustiniani, la Maddalena e il Sant'Agostino, un Ritratto di cortigiana questi ultimi quattro oggi non pervenuti, e altre due opere assegnate già all'epoca quali presunti dipinti di mano del Caravaggio, quindi il Ritratto di donna (Marsilia Sicca?) e il Ritratto d'uomo (avvocato Prospero Farinacci?), anche questi due non rintracciati.[32]
L'inventario di Vincenzo Giustiniani del 1638
Il marchese Vincenzo (sx) e il cardinale Benedetto Giustiniani (dx) (dal libro "La Galleria Giustiniana".)
Gli inventari seicenteschi della collezione furono molteplici (oltre al primo, del 1600, vi furono poi uno nel 1608 e un altro nel 1621),[1] tuttavia alla morte di Vincenzo Giustiniani, nel 1637, ne venne stilato un altro, datato 1638 che costituisce una delle risorse più importanti, da un punto di vista documentaristico e critico, sulla storia del collezionismo nella prima metà del Seicento, in quanto particolarmente dettagliato anche nella descrizione delle opere oltre che nelle assegnazioni delle medesime.[33] Accanto all'inventario, fu redatto anche un primo fidecommesso che vincolava e teneva legata tutta la collezione alla famiglia.[33]
A questa data la collezione Giustiniani aveva quasi triplicato in quantità quella di Benedetto, contando 632 dipinti (di cui 584 nel palazzo di rappresentanza, 8 nel palazzo di Porta del Popolo, 1 in quello del Laterano e 39 a Bassano Romano)[34] e ben oltre le 1600 sculture di antichità,[18] distribuite tra le varie residenze di famiglia, che rappresentano la vera peculiarità della sua collezione rispetto a quella di Benedetto, per le quali poco prima di morire il marchese si occupò di finanziare la realizzazione di un'opera a stampa in due volumi (di cui il primo curato da Joachim von Sandrart, che tra il 1629 e il 1635 fu incaricato di acquistare numerosi dell'antichità, circa 270 pezzi, per la collezione),[25] "La Galleria Giustiniana", dov'erano 330 incisioni che riproducevano gli esemplari più importanti della sua raccolta archeologica.[35][36] Si tratta di un'impresa sontuosa, utile a propagandare l'immenso patrimonio archeologico della famiglia, che in passato era stato proposto solo con l'Album Montalto (1620-1630 circa) dell'omonima collezione, e che successivamente verrà riproposto con le Aedes Barberinae (1642) e la Villa Pamphilia (1670), i cui volumi tuttavia saranno incentranti esclusivamente sulle raccolte delle relative residenze familiari piuttosto che sulle collezioni d'arte tout court.[37]
Le proprietà della famiglia restavano il palazzo Giustiniani nei pressi di piazza Navona, la casina di piazza del Popolo, la villa di San Giovanni in Laterano e un'altra a Bassano Romano,[1] per la quale il marchese incaricò di eseguire gli affreschi che decorano gli interni a diversi autori, tra cui Bernardo Castello, di cui le Storie di Amore e Psiche, il paesaggista Antonio Tempesta, che lavorò anche nell'edificio di rappresentanza a Roma,[31]Paolo Guidotti, che compì cicli nella sala della Felicità eterna (1610), Francesco Albani, che nella Galleria eseguì le Storie di Fetonte (1609-1610) e infine il Domenichino, che nel camerino di Diana realizzò le Storie della dea sul soffitto (1609). Sempre per Bassano Romano, il marchese stilò dei dettami in merito alla costruzione del borgo che sarebbe dovuto sorgere intorno alla chiesa di famiglia di San Vincenzo Martire, stabilendo l'obbligo per il successore, il principe Andrea, di spendere almeno una somma pari a mille scudi l'anno per tale fine.[38]
Morto il marchese Vincenzo, visto che i tre figli di questi avuti con Eugenia Spinola (Giovanni Gerolamo, Gerolama e Porzia) morirono anteriormente al padre, ancora in tenera età,[39] mentre il cardinale fratello non ebbe prole, tutti i beni della famiglia passarono in eredità al pronipote Andrea Giustiniani, I principe di Bassano Romano.[14][40] Andrea era imparentato con Vincenzo e Benedetto non in linea diretta, in quanto era figlio di Cassano, a sua volta figlio di cugini da parte della madre dei due fratelli, che ascese nella società nobiliare romana grazie anche alle nozze con Maria Pamphilj, figlia di Pamphilio Pamphilj e Olimpia Maidalchini, nonché nipote di papa Innocenzo X.[40]
Dal subentro di Andrea, che si ritrovò subito a saldare alcuni pagamenti riferiti a commissioni già avviate da Vincenzo,[14] ha inizio il vero e proprio ramo Giustiniani di Roma, che durò dalla seconda metà del Seicento, fino al 1826, con l'estinzione del casato in favore di quello Giustiniani Bandini, quest'ultimo ramo nato grazie alle nozze di Caterina Giustiniani con Pietro Antonio Bandini (ereditiere di una quota della Pietà Bandini di Michelangelo).[41]
La collezione del principe Andrea
Il lascito testamentario della collezione Giustiniani prevedeva un fidecommesso che vincolava la medesima ad Andrea, del ramo de Banca (mentre Vincenzo e Benedetto erano del Negro),[42] pronipote da parte materna del marchese,[42] senza la possibilità di cedere alcun pezzo della raccolta, pena il pagamento del doppio del prezzo ricavato dalla eventuale vendita.[39] Nel 1644, dopo il completamento della chiesa-mausoleo di famiglia titolata a san Vincenzo di Bassano Romano, il principe Andrea trasferì lì, con apposito documento che lasciava comunque i pezzi alla proprietà del fidecommisso, il Cristo Portacroce di Michelangelo, già al piano terra del palazzo romano, il dipinto su San Vincenzo Martire di Timan Arentsz Cracht e la tela di Giustino Fiammingo della Madonna col Bambino e san Giovannino (copia da Francesco Vecellio).[39][43][44]
Nel 1649 l'abate Michele Giustiniani ottiene licenza di esportare a Napoli 27 ritratti di uomini della collezione,[45] mentre il cardinale Orazio Giustiniani, confessore del marchese Vincenzo con un ruolo di rilievo all'interno della Congregazione di San Filippo Neri della chiesa della Vallicella, che si rivelò decisivo anche negli accordi matrimoniali tra il principe Andrea e Maria Pamphilj e che abitava il palazzo romano di famiglia almeno dal 1646, lasciava in eredità la sua modesta raccolta (di cui il pezzo più rilevante è l'Autoritratto con pennacchio di Nicolas Régnier, oggi a Claremont) al fratello Giuliano, per poi, alla morte di quest'ultimo nel 1654, confluire anche queste in quelle di Andrea.[46]
Il principe intanto spostava le opere tra le residenze di proprietà: oltre a quelle a Bassano Romano, questi diede più dignità anche alla villa di San Giovanni in Laterano, dove vi furono collocate molte tele (alla data di morte di Vincenzo era ivi catalogata un solo dipinto sovraporta riprendente una Veduta di Genova), tra cui l'Autoritratto di Gerrit van Honthorst (oggi non più rintracciato), alcune di Antonio Tempesta, otto tele di Anthoine van Os, il Ritorno del figliol prodigo di Giovanni Lanfranco (oggi al Prado di Madrid) e diverse tele già negli appartamenti del cardinale Orazio, tra ci anche l'Autoritratto di Régnier.[47]
La collezione rimase superstite dei suoi pezzi fino al Settecento, senza neanche che questa fosse interessata da immissioni particolarmente prestigiose, se non talune opere di natura prettamente sacra, ma senza neanche subire particolari perdite, grazie anche ad un rinnovo del vincolo testamentario di Vincenzo, stilato alla morte del principe Andrea Giustiniani, nel 1676.[39] Andrea si fece seppellire anch'egli come i suoi predecessori nella cappella di San Vincenzo della chiesa di Santa Maria sopra Minerva; la sua attività si concentrò per lo più verso le proprietà immobiliari della famiglia, abbellendo e rimodernando sia i palazzi-ville romani, che quello di Bassano.[38] Alla sua morte l'inventario registrava "solo" 491 tele, probabilmente la differenza con le 632 del 1638 si deve al fatto che talune di queste furono portate alla villa di Bassano e quindi non inventariate in questa circostanza.[48]
La collezione, quindi pressoché identica a quella inventariata nel 1638 alla morte di Vincenzo, venne affidata al figlio Carlo Benedetto Giustiniani, II principe di Bassano.[38][39] Questi tuttavia morì prematuramente nel 1679, all'età di 30 anni, chiedendo di farsi seppellire a differenza di tutti i suoi predecessori, e come invece faranno i suoi successori, nella chiesa di San Vincenzo di Bassano, seppur nel 1723 le sue spoglie con anche quelle della moglie (Caterina Gonzaga) furono poi traslate nella chiesa della Minerva di Roma.[49]
Successe nella tenuta della collezione dapprima la madre di Carlo Benedetto, quindi Maria Pamphilj, poi la moglie del principe, Caterina Gonzaga, dunque il figlio, il III principe di Bassano, Vincenzo, che acquisita la maggiore età, ereditò tutta la collezione Giustiniani, composta alla data del 1684 da 580 dipinti (probabilmente negli inventari furono ripristinati quelli di Bassano Romano, dove compare per la prima volta anche il busto in terracotta di Innocenzo X Pamphilj, opera dell'Algardi, donato dal cardinale Nicolò Ludovisi probabilmente a Maria Pamphilj, oggi nel palazzo Venezia a Roma) più gli innumerevoli marmi di antichità.[50][51]
Settecento
Nonostante il fidecommisso del marchese Vincenzo, rinnovato anche dal principe Andrea alla sua morte, già nel Settecento si avviarono le prime vendite di pezzi della collezione (talune comunque non vincolate dalla disposizione testamentaria del 1638): al 1717 risale un primo atto di vendita riguardante un gruppo di sculture antiche al cardinale Albani, tra cui il bronzo dell'Ercole;[52] al 1720 risalgono altre vendite di interi blocchi della collezione, di cui un grosso numero di sculture antiche era stato venduto a Thomas Herbert, VIII conte di Pembroke; intorno al 1750 un altro gruppo di opere fu ceduto invece a Lyde Browne per la sua casa di Wimbledon.[52]
Sul finire del secolo si avviarono le fasi che porteranno, durante l'epoca napoleonica, allo smembramento totale del catalogo, allorché l'istituto giuridico del fidecommisso venne abolito per decreto.[39] L'inventario del 1793, stilato alla morte del principe Benedetto Giustiniani, registra 822 pezzi, con l'aggiunta rispetto al passato di una biblioteca adorna di libri del XVIII secolo, principalmente di matrice francese.[54] Questo inventario sarà di fatto l'ultima testimonianza della collezione riunita sotto al casato, dimostrando nel contempo che questa era comunque cresciuta rispetto all'inventario seicentesco, grazie soprattutto a diversi lasciti, dando anche prova del fatto che il vincolo fidecommissario sia risultato poi effettivamente utile nella salvaguardia dell'integrità della raccolta, seppur la perdita di qualche pezzo sia poi avvenuto già nel XVIII secolo.[1] La collezione, con anche le proprietà della famiglia, furono ereditate dal figlio di Benedetto, Vincenzo junior Giustiniani.[55]
Nel 1797, per fronteggiare ai debiti accumulati dalla famiglia, furono venduti gioielli al Monte di Pietà per 8.819 scudi, i quali già dal 1638 restavano estranei da qualsiasi vincolo fidecommissario.[52]
Ottocento
Le prime dismissioni
La crisi finanziaria che colpì le famiglie romane nel corso dell'Ottocento, a seguito delle restrizioni napoleoniche, non esentò quella Giustiniani di cadere nella medesima sofferenza economica di cui furono investite tutte le altre (dai Borghese, ai Pamphilj). Per questi motivi i tre fratelli, il principe Vincenzo junior, Lorenzo e il cardinale Giacomo, per far fronte ai debiti insorti, furono obbligati anche loro a procedere in questo senso, e quindi a dismettere le raccolte pittoriche e scultoree collezionate fino a quel momento.[1]
Agli inizi dell'Ottocento furono cedute alcune proprietà immobiliari, come la villa su piazza San Giovanni in Laterano più altri fabbricati contigui che furono dati (per 75.000 scudi) alla famiglia Massimo, il palazzo a San Salvatore alle Coppelle (già di Giorgio Giustiniani, poi ereditato da Andrea e venduto per 4.000 scudi), le case al Pozzo delle Cornacchie e infine la casina Giustiniani di porta del Popolo (venduta ai marchesi Del Drago per 2.592 scudi).[56]
Nel 1802 vi fu un altro inventario ancora, stilato per ottemperare al chirografo di Pio VII che chiese alle famiglie romane di presentare una lista dei loro beni, con lo scopo di frenare l'esportazione delle opere d'arte.[57] L'elenco Giustiniani questa volta riportava 685 dipinti, circa 150 pezzi in meno rispetto ad appena dieci anni prima circa, a testimonianza del fatto che ebbe inizio l'attività di dismissione delle opere della collezione Giustiniani.[1]
Ferdinando di Borbone, assieme al suo emissario per le arti Domenico Venuti, tentò nei primi anni del secolo di acquistare la collezione pittorica; tuttavia a causa di un mancato accordo sulle modalità di pagamento, che vedeva il re di Napoli assolvere al debito mediante una parte in contanti e un'altra con concessione di fondi terrieri, la trattativa non andò in porto.[42] Successivamente a questi fatti, la collezione fu portata a Parigi e le opere che la compongono messe tutte all'asta; in questa occasione il principe Vincenzo portò le avances verso Lucien Bonaparte (che acquistò 6 dipinti, tra cui la Strage degli innocenti di Nicolas Poussin, 3 sculture oltre ad alcune proprietà alle porte di Roma) e gli inglesi William Buchanan e James Irvine, i quali acquisirono 158 opere.[1]
La cessione in blocco alle dinastie germaniche
Se le scelte degli acquirenti stranieri del Settecento vertevano tutte verso pitture del Cinquecento, in quanto non era ancora entrata in voga quella barocca, in particolare quella di Caravaggio, già ai primi dell'Ottocento questa tendenza risulterà totalmente invertita.[1] Tra le prime grandi pitture a lasciare la collezione vi fu infatti il Suonatore di liuto (oggi all'Ermitage di San Pietroburgo) del Merisi, acquistato nel 1808.[58]
Nel 1810 ancora un altro dipinto di Michelangelo lasciò la collezione, toccò questa volta all'Incoronazione di spine, che fu acquistato da Ludwing von Lebzeltern, ambasciatore imperiale per la corona austriaca presso la Santa Sede, nonché consulente per gli acquisti di opere artistiche; nel 1811 il granduca Federico IV di Sassonia-Gotha acquista invece dodici dipinti della collezione, in parte confluiti nello Schloss Friedenstein di Gotha.[58]
Tra le cessioni di opere antiche più rilevanti avvenute nei primi anni dell'Ottocento vi furono quelle verso Antonio Canova, che acquistò molti reperti, tra cui 6 vasi marmorei, 86 cippi (già nella casina del Popolo e poi ricollocati alla villa di San Giovanni) e 2 sarcofagi romani,[56] tutti successivamente donati dallo scultore ai Musei Vaticani,[61] mentre ancora altri pezzi sono oggi nei musei di Dresda.[35]
Nel 1819 avvenne la cessione a titolo di garanzia di un debito che la famiglia Giustiniani aveva nei confronti dei Torlonia, pari a circa 33.600 scudi.[62][44] Furono circa 267 le opere di antichità trasferite a Giovanni Torlonia, che però per vicissitudini burocratiche saranno consegnate ad Alessandro Torlonia solo intorno al 1856.[18] Gran parte dei pezzi di antichità confluirono nelle raccolte della famiglia franco-romana, tra cui alcuni dei più rilevanti del catalogo delle antichità,[63] come l'Hestia Giustiniani, l'Apollo con la pelle di Marsia, il busto del Satiro ebbro, quello di Eutidemo di Battriana e altri ancora. Dei pezzi già Giustiniani finiti nella collezione Torlonia, oggi ne rimangono supersiti 175.[64][44]
Nel 1826 il principe Vincenzo junior morì, quindi iniziò la contesa giudiziaria tra i fratelli del defunto, Lorenzo e il cardinale Giacomo, e tre fratelli di Genova, Lorenzo, Gaspare e Leonardo Benedetto Giustiniani, che rivendicarono la titolarità della raccolta in quanto, seppur "lontani" di parentela con il marchese Vincenzo, appartenevano comunque al suo medesimo ramo, quello del Negro (mentre dal 1638, con la successione del principe Andrea Giustiniani, il ramo familiare titolare della collezione divenne quello de Banca).[65][44] La battaglia la vinse la dinastia di Genova, pertanto prima Leonardo Benedetto e poi, nel 1857, alla morte di questi, il parente più prossimo nel lato materno, Pantaleo Vincenzo Giustiniani Recanelli, ereditarono la collezione.[44] Quest'ultimo esponente, assieme al figlio Alessandro, una volta entrato in possesso della collezione inventariò ciò che restava della stessa (sia pitture che sculture) con una stima economica dei pezzi che la componevano, così da avere una quantificazione di ciò che potevano incassare da una loro eventuale cessione.[65]
Nel 1854 avvenne la vendita del dominio di Bassano Romano agli Odescalchi, quindi sia la villa Giustiniani che la chiesa di San Vincenzo Martire che altri edifici di culto; la serie di dodici busti di imperatori romani disposti nel palazzo furono successivamente ricollocati nel castello di Bracciano, dove sono tuttora,[11] mentre altri pezzi della statuaria antica rimasero nella villa tra le disponibilità degli Odescalchi, come le statue di imperatore loricato entro la nicchia della loggia al piano nobile o quella della Fortuna (o Hera campana) nel cortile interno, il Gladiatore che uccide il leone (cosiddetto Gladiatore Giustiniani) nella peschiera, una statua panneggiata femminile (Pudicizia) del I secolo a.C., altre due di togati romani, una del periodo greco e l'altra del II secolo d.C., un Nettuno, una statua di Esculapio, una di Mitra e tante altre. Con questo trasferimento, si completò sostanzialmente lo smembramento della collezione Giustiniani e delle proprietà di famiglia.[35]
Statua di Afrodite accovacciata, replica del tipo Doidalsas, I secolo d.C., marmo greco, collezione Torlonia, Roma
Statua di Afrodite accovacciata, replica del tipo Doidalsas, I secolo d.C., marmo bianco, collezione Torlonia, Roma (con testa moderna attribuita a Pietro Bernini)
Statua di Atena (tipo Giustiniani), 140–180 d.C., marmo greco insulare e marmo italico, collezione Torlonia, Roma
Backereel (ignoto quale sia il nome), Paesaggio con l'angelo e Tobia, XVII secolo, nel 1662 alla villa di San Giovanni in Laterano (non più rintracciato)
Backereel (ignoto quale sia il nome), Paesaggio con cacciatore e lago, XVII secolo, nel 1662 alla villa di San Giovanni in Laterano (non più rintracciato)
Agostino Carracci, Madonna col Bambino e i santi Giovanni e Elisabetta, 85,4×62,8 cm, già al Neues Palais, Potsdam (requisito dalle truppe sovietiche nel 1946, da allora non più rintracciato)
Cigoli, Sogno di Giacobbe, olio su tela, 151×129 cm, collezione Burghley House, Stamford (già nella collezione Peretti, poi Savelli Peretti, fu donata nel 1712 da Caterina Giustiniani, vedova di Giulio Savelli Peretti, al nipote Andrea Giustiniani)
Correggio (scuola di?), Cristo, olio su tavola, 31,4×26 cm, già Neues Palais, Potsdam (requisito dalle truppe sovietiche nel 1946, da allora non più rintracciato)
Correggio (scuola di?), Madonna col Bambino, olio su tavola, 75,6×60 cm, già nel castello di Berlino (disperso dal 1829)
Ignoto, Ratto di Ganimede, XVI secolo, olio su tela incollata su tavola, 89×75 cm, Neues Palais,Potsdam
Ignoto, Ritratto d'uomo con guanto, 1550, olio su tela, 71×63 cm, Neues Palais,Potsdam
Ignoto, Ritratto della duchessa Maria Giustiniani sposa di Sforza Sforza Cesarini, XVIII secolo, olio su tela, 99×74 cm, Museo di Roma a palazzo Braschi, Roma
Ignoto, Ritratto di Carlo Giustiniani con armatura, elmo e bandana dell'Ordine Gerosolimitano, XVIII secolo, olio su tela, 99×73 cm, Museo di Roma a palazzo Braschi, Roma
Ignoto, Ritratto di Carlo Giustiniani con armatura e medaglia dell'Ordine Gerosolimitano, XVIII secolo, olio su tela, 98,5×74 cm, Museo di Roma a palazzo Braschi, Roma
Ignoto, Vecchia con panno bianco in testa, XVII secolo, olio su tela, 64×48,5 cm, Gemäldegalerie, Berlino
Ignoto, Venere e amorino, XVI secolo, olio su tela, 93×73 cm, Bomann-Museum, Celle
Innocenzo da Imola, Madonna col Bambino e san Giuseppe, già Neues Palais, Potsdam (requisito dalle truppe sovietiche nel 1946, da allora non più rintracciato)
Perugino, Madonna col Bambino, olio su tavola, 43×35 cm, già Neues Palais, Potsdam (dal 1945 non più rintracciato)
Baldassarre Peruzzi (?), Adorazione dei magi, olio su tavola, 66×49 cm, già Neues Palais, Potsdam (requisito dalle truppe sovietiche nel 1946, da allora non più rintracciato)
Il Pordenone, Presa di Cristo, olio su tavola, 73×148 cm, Schloss Friedenstein, Gotha
Scipione Pulzone, Ritratto di Pio V, olio su tavola, 62,8×47 cm, opera dispersa (una copia di formato leggermente più piccolo è al Museo Puskin di Mosca)
Pellegrino Tibaldi, Madonna col Bambino, san Giuseppe, santa Elisabetta e san Giovannino, olio su tavola, 84×69,8 cm, già Neues Palais, Potsdam (requisito dalle truppe sovietiche nel 1946, da allora non più rintracciato)
Segue un sommario albero genealogico degli eredi della collezione Giustiniani, dove sono contrassegnati da un asterisco (*) gli esponenti che sono entrati in possesso o che hanno contribuito alla formazione della collezione.[68] Per semplicità, il cognome Giustiniani viene abbreviato a "G.", mentre i rami della dinastia (Del Negro) e (de Banca), quelli che più si ripetono nelle dinamiche ereditarie, vengono ridotti a "d.N." e "d.B.".
Francesco G. de Banca (sposato con Caterina G. Longo)
Chiara G.d.B. (sposata con Cassano G. Ughetti)
Vincenzo G.d.B. (1519-1582) (era attivo a Roma già prima dell'approdo in città del cognato Giuseppe)
Maria G.d.B.
Pietro Giuseppe G.d.B.
Giorgio G.d.B.
Giorgetta G.d.B.
Gerolama G.d.B. (1534-1581) (sposata con Giuseppe G. del Negro [1525-1600], l'iniziatore della collezione)
Luchina G.d.B. (sposata con Andrea G.d.B.)
Benedetto G.d.N. (1554-1621) (fu assieme al fratello il principale fautore della collezione)
Vincenzo G.d.N. (1564-1637) (fu assieme al fratello il principale fautore della collezione)
...e altre 3 sorelle
Cassano G.d.B. (sposato con Caterina de Belli)
Giovanni Gerolamo (morto prematuramente al padre)
Gerolama (morta prematuramente al padre)
Porzia (morta prematuramente al padre)
Andrea G.d.B. (1605-1676) (ereditò la collezione G. alla morte di Vincenzo, da questo momento in poi la collezione sarà G. del ramo de Banca; era sposato con Maria Pamphilj)
Benedetto G.d.B. (1735-1793) (il suo inventario redatto in punto di morte rappresenta l'ultimo catalogo della collezione ancora integra, prime delle cessioni ottocentesche)
Caterina G.d.B. (sposata con Baldassarre Odescalchi)
Vincenzo G.d.B. junior (1762-1826) (fu l'ultimo esponente della dinastia romana; alla sua morte la collezione tornò ad eredi del ramo Del Negro provenienti da Genova)
Maria Isabella G.d.B.
Lorenzo G.d.B. (1767-1843) (alla morte di Vincenzo junior, avviò la lite legale contro eredi G. Del Negro di Genova che rivendicarono la collezione)
Giacomo G.d.B. (1769-1843) (alla morte di Vincenzo junior, avviò la lite legale contro eredi G. Del Negro di Genova che rivendicarono la collezione)
^Quivi è conservata una statua virile, creduta un Meleagro, con la testa copia di un atleta vincitore, citata nei Comptes rendus bibliographiques, Revue archéologique 2005/1 (nº 39), p. 428, come già ospitata a palazzo Giustiniani.
^Sulla quale una recente campagna archeologica ha individuato, presso piazza Vounakios, un cosiddetto palazzo Justiniani del XVII secolo: E. B. French, Archaeology in Greece 1990-91, Archaeological Reports, No. 37 (1990 - 1991), p. 61.
^ Alberta Bedocchi, Emanuela profumo, I caruggi di Genova, Newton Compton, 2007, pp. 335-338, ISBN88-541-0929-0.
^al cardinale Ubaldini inizialmente doveva andare la Carità di Luca Cambiaso, in quanto l'opera del Romano era prevista in dono al cardinale Giovanni Garzia Mellini. Quest'ultimo fu poi fu depennato dalla lista di "amici" del cardinale Giustiniani in quanto, avendo il Mellini ambito al papato dopo la morte di Paolo V Borghese, venne considerato da Benedetto reo di aver compiuto un tradimento nei suoi confronti.
^Ferdinando Bologna, L'incredulità di Caravaggio, Torino, Boringhieri, 2006, p. 618.
^Si vedano Karin Wolfe, "Caravaggio: another 'Lute player'", in The Burlington Magazine, 127 (1985), p. 451-452; Denis Mahon, "The singing 'Lute-player' by Caravaggio from the Barberini collection, painted for cardinal Del Monte", in The Burlington Magazine, 132 (1990), p. 5-7; Keith Christiansen, A Caravaggio rediscovered: the lute player, New York: The Metropolitan Museum of art, 1990; Keith Christiansen, "Some observations on the relationship between Caravaggio's two treatments of the 'Lute-player'", in The Burlington Magazine, 132 (1990), p. 21-26. Si veda inoltre Ferdinando Bologna, L'incredulità del Caravaggio e l'esperienza delle "cose naturali", Torino: Bollati Boringhieri, 1992, Regesto dei dipinti, n. 18.
^Il dipinto è ricordato in tre madrigali del poeta Gaspare Murtola del 1603: pertanto a questa data era già stato eseguito, come confermano gli atti del secondo interrogatorio di Orazio Gentileschi nel corso del processo intentato contro Caravaggio e i suoi amici da Giovanni Baglione del 1603. Lì si apprende che Giovanni Baglione aveva realizzato un "amor devino" in concorrenza con un "amor terreno" dipinto da Caravaggio (Cfr. Maurizio Marini, Caravaggio pictor praestantissimus, Roma, Newton Compton, 2005, p. 467, n. 54, ASR, Tribunale del Governatore, Processi, sec. XVII, vol. 28, cc 401,406. Il dipinto del Baglione è noto come Amor sacro e profano ed è conservato a Roma presso le Gallerie nazionali d'arte antica nella sede di Palazzo Barberini. Inizialmente di proprietà della collezione del Monte di Pietà fu ceduto allo Stato italiano nel 1895. Di questo soggetto esiste una seconda versione conservata a Berlino. Se nel primo dipinto l'angelo che sovrasta amore nudo in terra è raffigurato con una corazza che Caravaggio prese in giro dicendo che stava dentro una caffettiera e il diavolo in basso volta la testa all'interno, nella seconda la corazza diventa un corpetto e il diavolo volta il viso verso lo spettatore.
^P. de’ Sebastiani (Viaggio curioso de’ Palazzi e Ville più notabili di Roma, Roma 1683, 32) scrisse: «Tra le pittura pregiatissime vanta questa Casa di havere quaranta quadri grandi per Altari, ove sia la Vergine Santissima, ed altri Santi tutti originali di pittori primarii».
Francis Haskell e Tomaso Montanari, Mecenati e pittori. L'arte e la società italiana nell'epoca barocca, Einaudi, Torino, 2019, ISBN 978-88-062-4215-2.