Carmelo BeneCarmelo Pompilio Realino Antonio Bene (Campi Salentina, 1º settembre 1937 – Roma, 16 marzo 2002) è stato un attore, regista, drammaturgo, scrittore e poeta italiano. È stato uno dei protagonisti della "neoavanguardia" teatrale italiana e tra i fondatori del "nuovo teatro italiano"[1]. Autore prolifico, si impegnò in diverse forme d'arte quali la poesia, il concerto, il cinema. Biografia«Teniamoci lontani dal nostro tempo, lontani da questo sociale che ci frana addosso come una montagna di nulla. Non ne posso più del sociale, della politica gestita dai partiti, delle masse, ovvero delle plebi che sono al potere sotto forma di opposizione, ma non sono più minoritarie[2]» Nasce a Campi Salentina, in provincia di Lecce[3], il 1º settembre 1937, da genitori originari di Vitigliano, frazione di Santa Cesarea Terme. I suoi genitori, Umberto Bene (1900-1973) e Amelia Secolo (1905-1992), gestivano una fabbrica di tabacco dove lavoravano diverse centinaia di giovani operaie. Bene era un bambino gracile, timido, introverso e taciturno. Sua madre era fervente cattolica e praticante, così il piccolo Carmelo si trova a servire «un'infinità di messe», sia a Campi Salentina sia a Lecce, dove abitava la zia Raffaella, anche tre o quattro al giorno[4]. Una vocazione, questa, che abbandona man mano, sino a diventare allergico a qualsiasi tipo di ritualizzazione religiosa. Frequenta la scuola degli Scolopi di Campi Salentina, mostrandosi critico verso i propri insegnanti, definiti successivamente nella sua autobiografia[5] come incompetenti in teologia, bestemmiatori e pedofili. Trascorre così l'infanzia perlopiù fra i vezzi di questa moltitudine di ragazze, la scuola degli Scolopi e le gite domenicali a Lecce. Dopo gli studi presso l'Istituto Calasanzio dei Padri Scolopi di Campi Salentina, ove frequenta le scuole medie e il liceo classico sino al secondo anno, conclude gli studi classici nel Collegio Argento dei Padri Gesuiti di Lecce. In seguito si iscrive, diciassettenne, alla Facoltà di Giurisprudenza all'Università degli Studi di Roma "La Sapienza", senza frequentarla troppo. Si iscrive anche al primo anno dell'Accademia Sharoff. Da Lecce gli arriva la cartolina precetto e parte per la visita di leva, ma, contrario a utilizzare 18 mesi delle sue «numerose vite» svolgendo mansioni ritenute inutili, riesce a evitare il servizio militare fingendosi omosessuale. Anche all'esame psichiatrico risulta la sua ambivalenza, guadagnandosi l'attestato di RAM (ridotta attitudine militare)[6]. Nel 1957 si iscrive all'Accademia nazionale d'arte drammatica «Silvio D'Amico» e ne frequenta i corsi per un anno, ritenendoli inutili[7]: esisteva un certo attrito fra lui e gli insegnanti, e lo stesso Carmelo Bene sintetizza i divergenti punti di vista affermando che «il metodo per risvegliare i sentimenti era l'accademia Sharoff, quello per addormentarli la Silvio D'Amico». Aggiungendo: «Per fortuna, dopo un anno passai a non frequentare la Silvio D'Amico». Diventò presto famigerata la battuta: «Come va? Non c'è Bene, grazie»[8]. Bene ricorda che alla Silvio D'Amico, solo due insegnanti credevano in lui: l'insegnante di metrica e la signora Morino[9], trent'anni prima attrice con Ruggero Ruggeri. A Roma i genitori gli pagano l'affitto e un minimo di vitto, perciò in questi primi anni romani Carmelo, per sostenere la propria vita sregolata, deve lavorare di astuzia e praticare sotterfugi. In questi anni si ubriaca frequentemente e fuma molto. Finisce spesso per essere arrestato: «Bastava girare con la barba non rasa di un giorno» per essere fermato, interrogato o addirittura arrestato. Nel solo anno 1958 Carmelo Bene trascorse «trecentoventicinque notti nei vari commissariati di zona»[10]. Esordisce ventiduenne in teatro con Caligola di Albert Camus nel 1959, per la regia di Alberto Ruggiero[11]. Dopo le prime esibizioni romane torna a Campi Salentina con l'intento di sposare Giuliana Rossi, attrice fiorentina di quattro anni più grande, mal vista dalla famiglia di lui[12]. Il padre, in combutta con il primario, arriva a farlo internare al manicomio per un paio di settimane, con l'intenzione di scemare l'attrazione e l'intenzione a realizzare il matrimonio; Giuliana poi subisce esplicite minacce. Si sposano comunque a Firenze il 23 aprile 1960, «più per accontentare la suocera che per effettiva vocazione»[13] e dalla loro unione nasce un figlio, Alessandro, che viene allevato prevalentemente dai nonni materni e muore di tumore in giovane età[14] il 3 ottobre 1965 all'ospedale Meyer di Firenze. In questo periodo fiorentino avviene l'incontro letterario fondamentale della sua vita; legge l'Ulisse[15] di James Joyce[16] che lo affascina talmente da sconvolgerne il modo di pensare, sottraendogli gli ultimi residui di esistenzialismo[17]. Dopo questo primo impatto letterario Carmelo Bene lascia Firenze, vivendo un periodo di «pura erranza»[18], «scombussolato», senza una meta, prima di approdare a Genova. Nel 1960 conosce e si lega in amicizia con Aldo Braibanti e Sylvano Bussotti il quale cura le musiche dello Spettacolo-concerto Majakovskij che si tiene a Bologna nello stesso anno. Con la seconda serie di repliche del Caligola del 1961 Bene diventa «regista di se stesso», e da Genova in poi, non delegherà più a nessun altro la regia del suo teatro[19]. Tra il 1961 e il 1962 realizza il primo Amleto, «tutto shakespeariano, non ancora pervertito in Laforgue»[20], e il primo Pinocchio. Dalla Compagnia D'Origlia-Palmi, in auge a Roma tra gli anni trenta e settanta, Carmelo Bene ha modo di prelevare attori come Manlio Nevastri (in arte Nistri), Luigi Mezzanotte e Alfiero Vincenti: «Giovanissimo capocomico, senza un soldo, circondato finalmente da guitti straordinari reperiti nel Borgo Santo Spirito dalla signora D'Origlia e dal cavalier Palmi, miei ottimi amici[21].» Dal 1961 fino al 1963 costituisce il cosiddetto "Teatro Laboratorio" (con gli attori prelevati dall'anzidetta compagnia), realizzato in un locale di Trastevere, nel cortile al numero 23 di San Cosimato. Viene in seguito chiuso definitivamente a causa del fattaccio del «piscio» sulla platea e sull'ambasciatore argentino attribuito a Carmelo Bene, ma probabilmente perpetrato dal pittore argentino Alberto Greco. Al Teatro Laboratorio si allestiscono gli spettacoli cabaret con titoli significativi come Addio porco, una specie di happening, goliardata o presa in giro, che serviva a raggranellare denaro attirando gente snob e ricca a caccia di emozioni forti. Lo spettacolo Cristo '63 (registrato da Alberto Grifi ma che viene censurato[22]) scatena più d'uno scandalo, fino ai tafferugli con la polizia. Bene racconta: «La sera della prima successe un parapiglia infernale. Questo Greco, poco assuefatto al bere, si briaca di brutto [...] L'apostolo Giovanni (il Greco) cominciò a dare in escandescenze [...] In ribalta si alza la veste, mette il lembo fra i denti e comincia a orinare nella bocca dell'ambasciatore d'Argentina, della consorte in visone e dell'addetto culturale. Lo stesso evento si ripeté successivamente in una villa sulla Cassia Antica messa appositamente a disposizione da una gallerista col solo scopo di far rivivere quel fatidico happening, comprensivo di tafferugli, e questa volta furono i Re Magi che si misero a orinare addosso alle signore impellicciate[24]. In questi primissimi anni, dal Caligola in poi, fino alla parentesi cinematografica, Carmelo Bene in definitiva non trae altro successo che dallo scandalo, come ricordano, fra gli altri, Franco Quadri[25], Lydia Mancinelli e lo stesso Carmelo Bene nella sua autobiografia. D'altra parte Giuliana Rossi descrive Carmelo come un irresponsabile, cinico, sprezzante verso il prossimo, ma fascinoso e accattivante. Questo suo comportamento biasimevole, però, veniva compensato da una forza creativa e una cura straordinarie che dedicava ai suoi spettacoli. Sempre nel 1963 e quasi subito dopo la chiusura del Teatro Laboratorio, Carmelo Bene si imbatte casualmente, per la prima volta, in un'edizione laforguiana, che gli farà in seguito concepire i suoi Amleti. Già pensa alla sua Salomè; legge The Monk di Matthew Gregory Lewis che porterà poi in scena il 12 ottobre 1966 al Teatro delle Muse[26], con la rivisitazione[27] dal titolo Il Rosa e il Nero. Sempre nel 1963 viene allestito l'Edoardo II tratto da Marlowe che, in una delle sue repliche all'Arlecchino, vede fra gli spettatori la compagnia degli attori del Living Theatre, di passaggio a Roma, con i quali Bene stringe amicizia. Lavora contemporaneamente all'Ubu roi da Alfred Jarry che porterà al Teatro dei Satiri e alla Salomè da Oscar Wilde (con lo "straordinario" Franco Citti nei panni di Giovanni Battista) al Teatro delle Muse, davanti a un pubblico accanito e irriducibile composto da detrattori e da sostenitori (Ennio Flaiano, Alberto Arbasino, John Francis Lane, Alberto Moravia). Comincia in questo periodo il lungo sodalizio artistico-sentimentale con l'attrice Lydia Mancinelli, la quale per la prima volta recita in La storia di Sawney Bean (su testo di Roberto Lerici) del 1964. Negli anni sessanta-settanta Lydia Mancinelli[28] e Alfiero Vincenti sono per Carmelo Bene due figure fondamentali e insostituibili. Il 1964 segna anche l'anno dell'esordio al Teatro delle Muse della prima Salomè tratta da Oscar Wilde, con la partecipazione di Franco Citti nella parte di Jokanaan[29]. Lo spettacolo è osannato da Ennio Flaiano e da Alberto Arbasino, oltre che dal critico John Francis Lane del Times; fu criticato invece aspramente da Giuseppe Patroni Griffi. Dello stesso anno è la Manon, spettacolo teatrale tratto dalla Manon Lescaut di Prevost, le cui recensioni dell'epoca (come per gli altri suoi spettacoli) imputano un certo gusto per lo scandalo e una tendenza a voler stupire fine a sé stessa, cosa che Bene smentisce, asserendo che questa "rappresentazione" già era il suo "teatro degli handicap" a venire pienamente affermatosi negli anni ottanta[30]. Dopo il sequestro e la chiusura definitiva del Teatro Laboratorio trascorrono sei mesi con l'allestimento del Teatro Carmelo Bene al Divino Amore (1967), esperienza breve come l'altra precedente del Beat '72, la cui apertura avviene nel 1966[31]. Inoltre, in questo stesso periodo, tra il 1965 e il 1966, Bene scrive i romanzi Nostra Signora dei Turchi e Credito italiano, portati poi a teatro. Ma, come tutta l'opera beniana di questo periodo, il successo ebbe più che altro un riscontro elitario. Viene portato in scena al Teatro delle Muse Il Rosa e il Nero, rivisitazione[27] di The Monk di Matthew Gregory Lewis. Risale a questo periodo una testimonianza della trasmissione televisiva Avvenimenti 30. La voce fuori campo del cronista commenta: «Un giovanotto magro, nervoso, spiritato, venuto dalle Puglie per inventare a Roma un suo personalissimo teatro. Si chiama Carmelo Bene. Non ha ancora trent'anni. Ha già scritto un romanzo Nostra Signora dei Turchi. Ha diretto come attore, autore, regista, una decina di spettacoli. Dieci spettacoli, dieci polemiche clamorose. È un istrione? Oppure: è un genio? È un mistificatore? Su questi giudizi il pubblico e la critica si danno battaglia...[32].» Carmelo Bene pensa ora di abbandonare il teatro per dedicarsi ad altro. Nel 1967 Pier Paolo Pasolini lo invita a partecipare al suo film Edipo re. Intanto Nelo Risi, avendo progettato un film su Pinocchio, propone la parte della fatina a Brigitte Bardot, quella di Pinocchio a Carmelo Bene e quella di Geppetto a Totò; ma questi morì proprio nel 1967, mandando in fumo il progetto. Nello stesso anno Bene inizia la sua esperienza da regista cinematografico, arrivando l'anno successivo a vincere il Leone d'Argento al Festival di Venezia con quello che viene considerato il suo capolavoro: Nostra Signora dei Turchi. Fra i suoi principali amici e collaboratori di questo periodo vi furono il noto attore, autore e regista tarantino Cosimo Cinieri, Mario Ricci, Leo de Berardinis, Piero Panza e il noto pittore e scenografo leccese Tonino Caputo. Nel 1969 vediamo Bene partecipare come attore in Umano, non umano, film di Mario Schifano. La parentesi cinematografica dura sino al 1973, costituita da una serie di lungometraggi come Capricci (1969), Don Giovanni (1970), Salomè (1972), oltre al già citato Nostra Signora dei Turchi, che spesso producono in Italia reazioni sconsiderate, violenza gratuita e spaccatura di pubblico e critica, tra fautori e detrattori. Un Amleto di meno segna la fine di questa meteorica apparizione cinematografica di Carmelo Bene, esperienza mai più ritentata. Il 1970 è l'anno in cui Carmelo Bene conosce Salvador Dalí ed Emilio Villa[33], che contribuiscono a segnare la sua esperienza artistica. In questo stesso anno un Don Chisciotte televisivo commissionato dalla RAI sfuma, poiché il progetto viene ritenuto "impopolare". Il cast d'eccezione contemplava, oltre a Carmelo Bene, artisti di fama come Eduardo De Filippo, il clown sovietico Popov e Salvador Dalí (scenografo)[34]. Stessa sorte toccò a un altro progetto filmico fatto insieme con Eduardo, tratto da La serata a Colono di Elsa Morante. Scrive inoltre A boccaperta, pensato inizialmente come una sceneggiatura dedicata a San Giuseppe da Copertino. Partecipa inoltre in qualità di attore a film come Necropolis di Franco Brocani e a Storie dell'anno mille di Franco Indovina. Nel 1972-1973, con il ritorno al teatro, dopo la parentesi cinematografica, Carmelo Bene ottiene un vero trionfo. Il primo spettacolo teatrale di Nostra Signora dei Turchi, riportata di nuovo in scena, con le sue venticinque repliche romane, vede in platea un'infinità di "nomi che contano", tra cui Ennio Flaiano, Alberto Arbasino, Vittorio Gassman, Mariangela Melato, Giuseppe Patroni Griffi, Alberto Moravia, Renzo Arbore, Gianni Morandi, Gigi Proietti, Elsa De Giorgi, Enzo Siciliano, Franco Franchi e tanti altri[35]. Del 1973 sono le interviste impossibili radiofoniche con testi di Ceronetti, Sermonti e Manganelli, in cui Carmelo Bene e altri attori danno immaginificamente voce a vari personaggi storici e preistorici. Il 1974 segna l'anno della sua prima apparizione in televisione con "Quattro modi di morire in versi: Majakowski, Blok, Esenin, Pasternak" con la collaborazione di Roberto Lerici e Angelo Maria Ripellino, che ottiene un grande successo di pubblico e critica e un indice d'ascolto elevatissimo. Con gli anni settanta iniziano le assidue frequentazioni della Versilia dove Bene incontra intellettuali e uomini di cultura come Eugenio Montale, Vittorio Bodini, lo scultore Henry Moore. Inizia anche il febbrile interessamento di Bene per la storia medicea e in particolare per Lorenzino de' Medici, detto Lorenzaccio, la "sfinge medicea", che lo farà "impazzire" per un decennio. Nel 1975 Carmelo Bene partecipa come attore nel film di Glauber Rocha Claro. In questo stesso anno, durante la recita dell'Amleto al Manzoni di Milano, venne a sapere della morte del suo amico Pier Paolo Pasolini[36]. La stagione teatrale continua nel 1976 al Teatro Metastasio di Prato con Faust-Marlowe-Burlesque e Romeo e Giulietta da W. Shakespeare. Tra la fine degli anni settanta e l'inizio degli anni ottanta Bene conoscerà grandi successi. Nel 1977 viene messo in onda il Riccardo III televisivo. Alla prima al Teatro Manzoni il suo S.A.D.E. viene fatto sospendere dal questore di Milano per oscenità, provvedimento motivato apparentemente dalla presenza di nudi femminili sul palcoscenico. In questo stesso anno Bene ottiene un successo strepitoso in Francia, portando a Parigi (Opèra-Comique, Festival d'Automne) i suoi spettacoli teatrali (undici repliche di S.A.D.E., sei di Romeo e Giulietta) e dove conoscerà Jean-Paul Manganaro e altri intellettuali francesi con cui intesserà rapporti duraturi e molto proficui. Nella capitale francese frequenta Gilles Deleuze, Pierre Klossowski, Michel Foucault, conosce Jacques Lacan e altri. Il 1979 segna l'inizio del suo periodo cosiddetto concertistico e della macchina attoriale, culminando nell'esibizione alla Scala di Milano con un memorabile Manfred in forma di concerto accompagnato dalle musiche di Robert Schumann. Di questo anno è un Otello televisivo, realizzato a Torino insieme a Cosimo Cinieri, ma il restauro e il montaggio vennero iniziati soltanto nel 2001, sotto la vigile direzione di Bene[37]. Il 1980 vede la V edizione dello Spettacolo-concerto Majakovskij al Teatro Morlacchi di Perugia e l'Hyperion. In questo suo periodo di "approfondimento musicale", conosce e stringe amicizia con il tenore Giuseppe Di Stefano, il quale amava appellarsi il "Carmelo Bene della musica", definito da questi a sua volta, in sintonia con Toscanini, "la più bella voce mai sentita"[38]. Nel 1981, con la Lectura Dantis dalla Torre degli Asinelli di Bologna, porta la lettura della Divina Commedia davanti ad un pubblico di oltre centomila persone, in occasione del primo anniversario della strage della stazione. Terza edizione del Pinocchio al Teatro Verdi di Pisa. Nell'estate del 1982 a Forte dei Marmi scrive Sono apparso alla Madonna, titolo che gli viene suggerito dall'inconsapevole Ruggero Orlando, noto giornalista televisivo, corrispondente della RAI da New York. Per quanto provato da vari malanni fisici e dagli abusi prosegue, anche se in modo discontinuo, a calcare le scene teatrali. Nel 1983 si svolge la rappresentazione del Macbeth al Teatro Lirico di Milano, L'Egmont in Piazza Campidoglio a Roma; l'Adelchi nel 1984 al Teatro Lirico di Milano; la seconda edizione di Otello nel 1985 al Teatro Verdi di Pisa; Lorenzaccio nel 1986 al Ridotto del Teatro Comunale di Firenze. Il 12 settembre 1987 Carmelo Bene è a Recanati per recitare i Canti di Leopardi e il 10 novembre dello stesso anno al Teatro Piccinini di Bari con Hommelette for Hamlet. Nel 1988 Carmelo Bene viene nominato clamorosamente direttore artistico della sezione teatro della Biennale di Venezia, suscitando non poche polemiche. La vicenda finì poi per degenerare in querele e contro-querele, ricorsi, per un'intricata faccenda di competenze e responsabilità, e addirittura di appropriazione indebita di opere d'arte. Il 12 gennaio 1989 vede la seconda edizione della Cena delle beffe, in collaborazione con David Zed, al Teatro Carcano di Milano (con la partecipazione dell'attrice Raffaella Baracchi, che sposerà nel 1992) e il 26 luglio dello stesso anno il Pentesilea al Castello Sforzesco che l'anno dopo, il 19 maggio, verrà ripreso a Roma, al Teatro Olimpico. Nonostante gli acciacchi e i diversi interventi chirurgici subiti, e che subirà ancor più in seguito, non tradirà la sua fama di enfant terrible. Memorabili furono le sue apparizioni televisive a Mixer Cultura (1988) e al Maurizio Costanzo Show (1994 e 1995). Alla fine del dicembre del 1990 Carmelo Bene è a Mosca per insistenza e intraprendenza di un suo grande ammiratore, Valerj Shadrin[39], realizzando un successo strepitoso. Al suo seguito troviamo, tra gli altri, Camille Dumoulié, Jean-Paul Manganaro, Gian Ruggero Manzoni ed Edoardo Fadini. Questa sua collaborazione e "ricerca teatrale" in terra russa durerà circa tre anni, suscitando, a dire di Bene, non pochi clamori e ostilità nell'ambito dell'E.T.I.[40] Nel febbraio del 1992 Carmelo Bene spende 200 milioni di lire per far pubblicare[41] e reiterare delle inserzioni pubblicitarie o propagandistiche sul "Messaggero" e la "Repubblica" che in definitiva si dimostreranno essere tout court potenti armi scagliate soprattutto contro il "Ministero dello spettacolo" e il Teatro Stabile. Questo evento clamoroso fu infatti avvertito come una calunnia e un danno da parte degli interessati addetti ai lavori, tanto che seguiranno poi querele, con richiesta di risarcimento di due miliardi di lire, da parte del Teatro di Roma, rivolte contro i quotidiani anzidetti e contro lo stesso Bene. Ecco l'incipit di uno stralcio estratto da quelle fatidiche inserzioni. «Oggi lo Stato dello Spettacolo è in mutande: per sopravvivere ad ogni costo, minaccia contributi e sovvenzioni (a una marea indiscriminata di sfaccendati che - "quasi" nessuno escluso - può giovare al teatro in un solo modo: togliendosi di mezzo=disoccuppandosene) [...][42]» Nel 1992 Bene sposa Raffaella Baracchi, incinta di sei mesi. Dopo due mesi la Baracchi lo denuncia per botte a mezzo di sedia. La bambina che porta in grembo, fortunatamente, non patisce conseguenze. In caserma, Bene insulta i carabinieri (che lo denunciano), controquerela la moglie per “truffa, estorsione, tentato omicidio e omissione di soccorso”; infine controquerela anche l’Arma dei Carabinieri[43]. Nel 1994 vediamo Bene con l'Hamlet Suite al 46º Festival shakespeariano al Teatro Romano di Verona. Nel 2000 con la pubblicazione del poema 'l mal de' fiori viene acclamato "poeta dell'impossibile" dalla Fondazione Schlesinger, istituita da Eugenio Montale, la cui presidenza onoraria era tenuta allora da Rita Levi-Montalcini. Il 6 ottobre 2000 Carmelo Bene affida, tramite pubblico testamento, i diritti delle sue opere alla fondazione l'Immemoriale di Carmelo Bene. Il 16 marzo del 2002 Carmelo Bene muore a Roma. Giancarlo Dotto, per molti anni assistente alla regia di Carmelo Bene, così lo ricorda. «Non è solo l'amico che manca, ma quella voce, chissà dov'è andata, quella voce che ci dava calma e forza, quella voce che dà la nostalgia di tutto ciò che abbiamo perduto senza avere mai avuto.[44]» Per espressa sua volontà il suo corpo fu cremato e il suo funerale non reso pubblico. La lapide riporta solo il suo nome e cognome e le date, di nascita e di morte. Anche dopo la morte, Bene non cessa di alimentare polemiche e contrasti[45]. Raccontano alcuni testimoni, tra cui Roberto D'Agostino, che proprio durante la veglia funebre ci fu un alterco verbale, che stava per degenerare in una violenta rissa, tra Luisa Viglietti (compagna di Bene negli ultimi suoi nove anni) e la Baracchi, la quale si era presentata con la figlia Salomè insieme al suo legale[43]. Come se non bastasse, alla successiva tumulazione ufficiale delle ceneri nel cimitero di Otranto è seguita una serie di contrasti sulla loro definitiva e giusta sistemazione, che vedono come protagonisti contrapposti la moglie Raffaella Baracchi e la sorella Maria Luisa insieme a Luisa Viglietti, entrambe assenti al funerale ufficiale, data la loro esplicita disapprovazione. La sorella in particolare lo ha commemorato (senza la presenza dell'urna) nel camposanto di Vitigliano (Santa Cesarea Terme), laddove riposano le ceneri della madre Amelia[46]. Ad oggi la fondazione L'Immemoriale di Carmelo Bene risulta impedita nel dare avvio alle attività prefissate, stagnazione dovuta più che altro alla battaglia legale non ancora conclusa fra le parti in causa: Raffaella Baracchi, Luisa Viglietti e Maria Luisa Bene[47]. Il 13 gennaio 2009 Maria Luisa Bene, sorella di Carmelo, annuncia ai media di non credere alla morte per cause naturali del fratello. "Io, Maria Luisa Bene - dice la donna - avendo piena consapevolezza delle mie condizioni di salute, rendo noto di non intendere lasciare questa terra senza che il mondo sappia che mio fratello, Carmelo Bene, nominato 'chevalier des lettres et des arts' dal governo Mitterrand, è morto per mano altrui"[48]. Per un motivo o per l'altro, non ultima l'evidenza della malattia, l'ipotesi dell'omicidio è stata accolta dal generale scetticismo di collaboratori e persone vicine all'attore[47]. OperaLa sua discussa e controversa figura, spesso oggetto di clamorose polemiche, ha diviso critica e pubblico fin dagli esordi: considerato da alcuni un affabulante ingannatore e un presuntuoso "massacratore" di testi[49], per altri Bene è stato uno dei più grandi attori del Novecento. Dalle dichiarazioni di Bene risulta evidente il suo disprezzo per certa critica teatrale, da lui ritenuta "piena di parvenus". Tra i primi a rendergli omaggio si ricordano alcuni tra i più illustri esponenti del mondo intellettuale dell'epoca, come, ad esempio, Eugenio Montale, Alberto Moravia, Ennio Flaiano e Pier Paolo Pasolini. Bene ebbe poi modo di collaborare, tra gli altri, con Pierre Klossowski e Gilles Deleuze, i quali scrissero alcuni saggi sul modo di fare teatro dell'artista italiano. La lotta di Bene si rivolge contro il naturalismo e la drammaturgia borghese, contro le classiche visioni del teatro. Rivendica l'arte attoriale innalzando l'attore da mera maestranza (così definita da Silvio D'Amico) ad artista-personificazione assoluta del complesso teatrale. Il testo, poiché nato dalla penna di uno scrittore spesso avulso dal problema del linguaggio scenico, non può essere interpretato[27]: esso deve necessariamente essere ricreato dall'attore. Carmelo Bene è contro il teatro di testo, per un teatro da lui definito "scrittura di scena"[50], un teatro del dire e non del detto. Fare "teatro del già detto" sarebbe un ripetere a memoria le parole di altri senza creatività, quello che Artaud definiva un "teatro di invertiti, droghieri, imbecilli, finocchi: in una parola di Occidentali". È l'attore, con la scrittura di scena, a fare teatro hic et nunc. Il testo viene considerato come "spazzatura", perché lo spettacolo va visto nella sua totalità. Il testo ha il medesimo valore di altri elementi come le luci, le musiche, le quinte. Il teatro di testo, di immedesimazione, viene definito da Bene come un teatro cabarettistico. Gli attori che si calano in dei ruoli, che interpretano, sono per lui degli intrattenitori, degli imbonitori, dei "trovarobe". Nel suo teatro, l'attore è l'Artefice. Il testo non viene più messo in risalto come nel teatro di testo, viene anzi martoriato, continuando un discorso iniziato da Artaud, che già aveva iniziato la distruzione del linguaggio, ma che per Bene fallì sulle scene, perché cadde nella interpretazione[27]. Bene distrugge l'Io sulla scena, l'immedesimazione in un ruolo[51], a favore di un teatro del soggetto-attore. Bene è stato definito Attore Artifex, cioè attore artefice di tutto, e lui stesso preferiva definirsi, con un neologismo, una "macchina attoriale": autore, regista, attore, scenografo, costumista.[52] Buona parte delle opere letterarie di Carmelo Bene le possiamo trovare raccolte in un volume unico, dal titolo Opere, con l'Autografia di un ritratto, nella collana dei Classici Bompiani. Inoltre La Fondazione Immemoriale di Carmelo Bene si preoccupa della "conservazione, divulgazione e promozione nazionale ed estera dell'opera totale di Carmelo Bene, concertistica, cinematografica, televisiva, teatrale, letteraria, poetica, teorica, ..." Influenze sull'opera benianaSarebbe fuorviante parlare di "influenza" tout court sull'opera beniana, considerata l'impossibilità di trovare raffronti e/o filiazioni storico-geografiche, e come scrive Piergiorgio Giacchè, "chi conosce Bene e il suo teatro, sa che la sua singolarità è assoluta".[53] Bisogna considerare inoltre il fatto che già dagli esordi Bene si è dichiarato una volta per tutte "allievo di sé stesso".[54] Stabilita questa unicità e dando al termine "influenza" un valore puramente indicativo e convenzionale, possiamo allora dire che tra le non poche "influenze", più o meno decisive, riscontrabili nella sua opera, si possono citare: Dante Alighieri, Giacomo Leopardi, de Sade, Gabriele D'Annunzio, Dino Campana, Tommaso Landolfi, Antonio Pizzuto, Elsa Morante, Emilio Villa, Oscar Wilde, James Joyce, Thomas Eliot, Yukio Mishima, Ezra Pound, Franz Kafka, Vladimir Majakovskij, Sergej Aleksandrovič Esenin, Aleksandr Aleksandrovič Blok, Boris Pasternak, Max Stirner[55], Charles Baudelaire, William Shakespeare, Christopher Marlowe, John Donne, Jules Laforgue, Edgar Allan Poe, San Juan de la Cruz, Pier Paolo Pasolini, Buster Keaton[56], Totò, Jean Genet, João César Monteiro, Ettore Petrolini, Peppino De Filippo, Eduardo De Filippo, Antonin Artaud, Living Theatre, Bertolt Brecht (con qualche riserva)[57], Samuel Beckett, Friedrich Nietzsche, Emil Cioran, Jacques Lacan, Michel Foucault, Gilles Deleuze, Sigmund Freud, Jacques Derrida, Thomas Hobbes, Ferdinand de Saussure, Pierre Klossowski, Leopold von Sacher-Masoch, Salvador Dalí, Francis Bacon, Giorgio De Chirico, Giuseppe Verdi, Gioachino Rossini, Wolfgang Amadeus Mozart, Ludwig van Beethoven, Maria Callas, Beniamino Gigli, Arthur Schopenhauer, Filippo Tommaso Marinetti, Giorgio Manganelli, Carlo Collodi, Edmondo de Amicis, Friedrich Hölderlin, Giorgio Colli, Alessandro Manzoni, Albert Camus, Robert Louis Stevenson, Alfred Jarry, Antoine François Prévost, Matthew Gregory Lewis, Miguel de Cervantes, Alfred de Musset, Benedetto Varchi, Heinrich von Kleist, Eugenio Montale, Alberto Moravia e tanti altri. Fuori dal campo dell'arte e della filosofia, hanno contribuito alla sua formazione (oltre alla famiglia e all'ambiente nativo salentino naturalmente), le influenze sospese tra una probabile storia e l'immaginario come San Giuseppe da Copertino, Lorenzaccio, la non-storia dei Santi.[58] Decisive furono inoltre le esperienze delle migliaia di messe servite, dove l'infante Carmelo incominciò quasi inconsapevole ad avere a che fare con "il teatro come incomprensibilità e come incomprensione tra officianti e spettatori"[59]. Altra esperienza indimenticabile fu il mesetto, poi ridotto a due settimane, di permanenza in manicomio dove incominciò a rendersi conto del "linguaggio istituzionale normale" e quello "'scombinato o impeccabile" dei pazzi, delle vere "macchine demolitrici"[60]. Il Grande Teatro o teatro senza spettacoloIl linguaggio e la terminologia usati per spiegare il suo modo di concepire e "dis-fare" il teatro sono unici e inequivocabili, mai tentati prima, perciò Carmelo Bene si sente sempre necessitato a precisare, dicendo che [61], è: «... un non-luogo soprattutto; quindi è al riparo da qualsivoglia storia. È intestimoniabile. Cioè, lo spettatore per quanto Martire, testimone, nell'etimo [da martyr], per quanti sforzi possa compiere lo spettatore, dovrebbe non poter mai raccontare ciò che ha udito, ciò da cui è stato posseduto nel suo abbandono a teatro.[62]» In questo Grande Teatro agisce, o meglio, viene agito il non-attore o la macchina attoriale (conseguenza del grande attore), non vi è rappresentazione[63] e rappresentanza, divisione dei ruoli, messaggio più o meno sociale, psicodrammaticità. In questa utopia o "non-luogo", viene a imporsi l'osceno (fuori scena e fuori di sé) e l'assenza, il porno (l'aldilà del desiderio): tutti "concetti" di cui Bene ha dimostrato la sussistenza sperimentandoli in prima persona. Per questo sentiamo Bene sempre parlare di dis-fare e non di fare (teatro o altro), di di-scrivere e non di scrivere o descrivere, di non-attore e non di attore[64], di non-luogo, di assenza e non di presenza, di irrappresentabile e non di rappresentabile o rappresentazione, di porno e non di eros, di assenza di ruoli, di togliere di scena e non di mettere in scena, di essere agiti e non di agire, di esser detti e non di dire, ecc. La maggior parte degli studiosi concordano sul fatto che questa revisione totale del teatro (riferita al suo linguaggio, al modo, alla forma e alla sua stessa essenza), consente a Bene di essere annoverato fra gli "attori" di genio e non di talento. La macchina attorialeLa macchina attoriale (o C.B.) è la conseguenza del grande attore[64] che si è svestito delle umane capacità espressive corporee (vocalità, espressione del viso, gestualità, ecc.), per indossare una veste amplificata sia sonora che visiva, comunque sempre vincolata e soggiacente alla phoné. Prima di tutto è importante l'amplificazione della voce, che permette all'attore di ricondurre l'emissione sonora al proprio interno. La voce della cosiddetta macchina attoriale non è una mera e semplice amplificazione ma è un'estensione del ventaglio timbrico e tonale, che, in questo caso, diventa un sistema unico e inscindibile, che ingloba corde vocali, cavità orale, contrazioni diaframmatiche, equalizzazione, amplificazione, ecc. La macchina attoriale è una fusione tra macchina e attore; l'amplificazione non è dunque una mera protesi ma un'estensione organica ulteriore dove la voce ormai non è più caratterizzata dalla sua fisicità, ma prevalentemente, diciamo così, dal meccanismo sonoro. Così come non si possiede un corpo ma si è il corpo, allo stesso modo si è o si diventa amplificazione, equalizzazione, ecc. Bene facendo un esempio dice che: «L'amplificazione non è assolutamente un gonflage, un ingrandimento, ma come guardare questa pagina: se io la guardo in questo modo, ecco, così, io vedo e così sento; ma se io avvicino questo [foglio], più l'avvicino, più i contorni vaniscono. I contorni vaniscono e non vedo più un bel niente.» E inoltre aggiunge che la macchina attoriale è: «... lettura intanto, come nella poesia, nella concertistica,... (Io) ho bisogno sempre [...] di leggere, di essere detto, non di riferire la cosa... [...] non per ricordare, o nella presunzione che lo scritto corrisponda all'orale. [...] Lo faccio per dimenticare. La lettura come oblio. La lettura paradossalmente come non ricordo[65].» Nel seminario del 1984 Carmelo Bene spiega molto chiaramente il perché di una "lettura come non ricordo": il grande attore o la macchina attoriale è obbligata a stornare l'attenzione dal ricordo onde controllare quella che in musica viene detta fascia (che comprende timbri e toni), laddove è racchiuso tutto il "delirio [della voce], della concentrazione", dal cui limite non si può uscire. "Questa è la ragione fondamentale perché", nonostante C.B. conosca "a memoria Leopardi come pochi", è costretto a leggere onde "controllare questa fascia e al tempo stesso verificare "l'idiosincrasia" tra quanto si sta leggendo e quanto sta divenendo di lui.[66] Stornare completamente l'attenzione dalla "cadaverina mnemonica" è condicio sine qua non per far funzionare la macchina attoriale, dato che vi è una notevole mole di lavoro e concentrazione da dedicare altrove. «I foniatri spiegherebbero benissimo l'immane fatica che bisogna fare a tirare una nota alta, mettiamo un SI, e poi scendere, scalare d'ottava, quindi andare due tonalità sotto, una sopra, senza uscire da questa fascia [...] Le corde vocali giocano nel palato... viene un gran mal di testa dopo un po'... e bisogna stare molto attenti perché si perde la voce con nulla.[66]» Per quanto riguarda la parte visiva della macchina attoriale, Carmelo Bene ricorda che, non solo l'orecchio, ma anche. «... l'occhio è ascolto. [...] Un'appoggiatura del capo, una frantumazione del gesto, uno due tre. ecc. e una disarticolazione del corpo...[67]» Scrittura di scena, testo a monte e teatro di regiaLa scrittura di scena, come il grande attore, precede l'ulteriore sviluppo rappresentato dalla macchina attoriale C.B. Precisando poi che l'importanza del testo nella scrittura di scena è del tutto uguale a qualsiasi altro oggetto che si trova sulla scena, che sia più o meno significativo poco importa, come per esempio il parco lampade, un tavolo, un pezzo di stoffa, ecc. La phonéIl fatto paradossale è che il suo teatro così incomprensibile abbia avuto infine, in modo prodigioso, un successo di vasta portata popolare. Questo equivoco lo spiega lo stesso Bene, dicendo che il linguaggio del Grande Teatro, incomprensibile per definizione, è comprensibile tout court su un piano d'ascolto diverso, essendo tutto affidato ai significanti e non al senso o al significato. Quindi, come succede per la musica, il Grande Teatro è fruibile, comprensibile anche da persone che parlano lingue diverse, come per esempio eschimesi, o cinesi, poiché la babele linguistica viene risolta tutta nella phoné, e non nel senso. La phoné viene espressamente definita da Bene come rumore, che comprende anche la musica e il dire.[69] La phoné è pur sempre un mezzo e non un fine, e a questo proposito Carmelo Bene fa una precisazione essenziale: «Se qualcuno ha potuto definire la phoné una dialettica del pensiero, nego di aver qualcosa a che fare con la phoné. Io cerco il vuoto, che è la fine di ogni arte, di ogni storia, di ogni mondo.[70]» Atto e azione, kronos e aionL'altro pilastro su cui si basa il tipico modo di dis-fare il teatro di Bene è quello dell'impossibilità di una qualunque azione di realizzare appieno uno scopo, se non si smarrisce nell'atto. L'atto è ciò che tenta di negare, di ostacolare, ovvero sgambetta l'azione, restando orfana del suo artefice[71]. Anche in questo caso abbiamo a che fare con significanti e non con significati. Perciò Carmelo Bene scaglia anatemi ed improperi contro il teatro dell'azione o del moto a luogo, che viene a svolgersi nel tempo Kronos, contro gli «spazzini del proscenio» (così definisce gli attori) del teatro di regia a cui contrappone quello della scrittura di scena (e in seguito quello della macchina attoriale) che accade nel tempo Aion. Sulla dicotomia Kronos/Aion è forte l'influenza di Gilles Deleuze che in Logica del senso (1969) ne sviluppò la teorizzazione a partire dal pensiero degli Stoici. L'osceno, il porno, l'erosCarmelo Bene dice che:
Mentre cercando di definire la differenza tra eros e porno afferma che. «L'erotismo è quanto di romanticamente stupido ci possa [essere]... appartiene all'io... [...] ...il plagio reciproco nella irreciprocità assoluta. [...] Il porno invece ... non è più il soggetto in quanto oggetto squalificato ma [...] è starsi da oggetto a oggetto, non da soggetto a soggetto.[73]» Inoltre, Carmelo Bene definisce il porno come l'eccesso del desiderio, e più precisamente l'annullamento del soggetto nell'oggetto, quindi senza più la possibilità di un io desiderante. Nel porno c'è incantamento, smarrimento, dissolvimento, assenza; nell'Eros (l'amor facchino), c'è desiderio, e la conseguente ricerca febbrile del suo sempre frustrato e reiterato appagamento. Ancora Bene dà qualche ulteriore definizione dicendo che. «... il porno si instaura dopo la morte del desiderio... - morto sacrificato eros - l'aldilà del desiderio.[74] Quando tu fai qualcosa al di là della voglia, la voglia della voglia, questo è il porno. È una svogliatezza.[75] [...] il porno è il manque, è quanto non è, è quanto ha superato se stesso, è quanto non ha voglia...[76]» Il teatro di Carmelo Bene è specificamente nel porno e nell'osceno, non vi è possibilità di comprensione, poiché si è compresi, come del resto non ci può essere rappresentazione, poiché essa appartiene al teatro di regia, e non alla scrittura di scena. In questo caso la perdita del senso (non essendoci né rappresentazione né comprensione) è il presupposto fondamentale dell'osceno e dell'assenza. Si è nel porno, da non confondersi con la pornografia nel senso usuale del termine. L'osceno, o meglio l'o-sceno, è l'altrove, non essere dove si è, un superamento spazio-temporale, il non essere in scena; e Bene dice paradossalmente, appunto, di togliere e togliersi di scena, smarrire così anche e soprattutto l'identità, lo scopo per cui si è agiti, il senso e la direzione. Smarrirsi per non più ritrovarsi. C'è tutta questa passiva attività, questo scacco all'arroganza dell'io e del suo teatrino occidentale. Sospensione del tragicoCarmelo Bene ne parla in questi termini. «Un'azione fermata nell'atto è quanto m'è piaciuta definire sospensione del tragico. È così che, grazie all'interferenza d'un accidentaccio, la surgelata lama del comico si torce lancinante nella piaga inventata tra le pieghe risibili-velate della rappresentazione nel teatro senza spettacolo.[77]» Il teatro della rappresentazione cerca di rendere la tragedia attendibile, credibile, con mezzi modi e maniere; mentre per Bene si tratta di minarne il suo senso dalle fondamenta. Sono fondamentali perciò tutta una serie di handicap appositamente creati sulla scena che consentono di trasgredire quanto prescritto e consolidato dalla tradizione. Ecco allora, per esempio, Riccardo III deformarsi con protesi, che scivola malamente, imprevedibilmente; Amleto che rifugge completamente (sebbene ne sia invischiato fino al collo) dal suo ruolo tragico con diversi e astuti sotterfugi. Anche sul piano dei monologhi e dialoghi monologati c'è questo sgambettarsi, questo cortocircuitarsi del linguaggio, tale da rendere inattendibile l'evento. La tragedia viene ecceduta dal comico, o diversamente detto: esiste una continuità tra il tragico e il comico e non un'effettiva apparente dissonanza; più che due facce della stessa medaglia, si tratta di una gradazione di infiniti doppi. Non c'è un margine che possa arginare il comico dal tragico o viceversa: si è in balia della trasgressione. Perciò, nel teatro di Carmelo Bene, il soggetto soltanto può essere assoggettato a questa variabilità, perturbabilità fondante e non l'Io che è rappresentativo, svolgendo un ruolo istituzionale e di controllo, anche quando sembra voglia trasgredire. Il comicoCarmelo Bene descrive il comico, o meglio, il così da lui definito ipercomico, come "quanto di più asociale e libertino si possa concepire, se mai fosse concepibile", affermando che... «Il comico è cianuro. Si libera nel corpo del tragico, lo cadaverizza e lo sfinisce in ghigno sospeso.[78]» Perciò Bene considera gli attori come Benigni, Dario Fo, Charlie Chaplin, lo stesso Totò e persino il tanto da lui apprezzato Peppino De Filippo, ben lontani dalla gelida lama e dal freddo cadaverico del comico, poiché essi sono, chi in un modo chi in un altro, invischiati nella socialità, nell'intrattenimento, nell'attendibilità. Sono dei buffi, delle macchiette, contrariamente a quanto avviene per esempio nella sprezzante ironia di un Ettore Petrolini. Il comico, secondo Bene, permane nel porno ed è in definitiva nient'altro che la spalla o stampella del tragico. Il femminile e l'avvento della donna a teatroIn età elisabettiana i ruoli femminili venivano recitati da maschi, e Carmelo Bene depreca l'abbandono di questa consuetudine, a favore dell'avvento, fatale, della donna sulla scena; e qui ora uomini e donne sono relegati ai loro ruoli specifici, smarrendo entrambi il femminile. Non si è più nel porno; resta il rapporto duale maschio-femmina, la caratterizzazione del loro genere e sessualità. Non c'è più il gioco, la trasgressione. E così si fa sul serio o si scherza, ma non si gioca più (in inglese recitare si dice to play e in francese jouer). Carmelo Bene inoltre considera la donna poco o nulla femminile[79], e si vede così costretto ad accollarsi il femminile che alla donna manca. Spesso Carmelo Bene è stato accusato dalle femministe di maltrattare le donne a teatro[80], alle quali ribatte fornendo l'esempio dell'Otello che è il suo più grande omaggio fatto alla donna, in quanto assente. Il degenereIl degenere ("destabilizzazione di ogni genere"[66]) nel teatro beniano sta a significare, oltre all'impossibilità di un'identificazione precisa ed univoca del genere teatrale (farsa, commedia, tragedia, ecc.), anche la mancata o impossibile identificazione dell'attore o dell'artefice intercalato nei ruoli che gli dovrebbero competere, e ciò implica una completa revisione e trasgressione del testo a monte, attuate nella scrittura di scena. In senso lato, il degenere è tutto ciò che contraddice e non rispetta i luoghi comuni del teatro convenzionale, e in questo caso le acquisizioni accademiche essenziali del bagaglio di formazione attoriale, possono servire, se minate e disattese, alla macchina attoriale, per crearsi handicap irrinunciabili. Oltre i modiGilles Deleuze definisce Carmelo Bene come colui che ha vinto la sfida del modale, e quindi il suo teatro viene di conseguenza ad essere considerato, e ormai accettato dagli studiosi più seri e preparati, non un modo di fare teatro, ma un superamento dei modi. I suoi presupposti si possono rintracciare nel suo decennale lavoro ossessivo-maniacale di attivo destrutturatore dei linguaggio teatrale, cinematografico, prosodico, ecc. È lo stesso Bene a fornire questo bilancio:
Il depensamento e il problema del linguaggioIl depensamento è, semplificando, l'opposto del pensare, non riconoscer-si (simile al neti neti dello yoga) né a questo né a quello. Il depensamento può essere considerato come forma di meditazione oppure come un lavorio interno, che conduce ad una non scelta tra gli infiniti doppi. Questo prodursi può paragonarsi al flusso di coscienza (stream of consciousness). Il depensamento comunque non appartiene categoricamente a un metodo colto e aristocratico di sperimentazione e conoscenza, ma fa parte anche e soprattutto della tipica indolenza del Sud, della classe per così dire ignorante, dei santi come San Giuseppe da Copertino, verso il quale Carmelo Bene nutre un'empatia e una profonda attrazione. Qui subentra ovviamente anche il discorso dell'interferenza del potere del linguaggio e del linguaggio del potere costituito a cui si è assoggettati. Così come non si è nati per propria volontà[82], similmente si è succubi del linguaggio che dispone di noi, e di cui non ne disponiamo attivamente; infatti Carmelo Bene dice, facendo proprio quanto già ribadito da Lacan[83]: "quando crediamo di essere noi a dire, siamo detti". Contrariamente alla grammatica della lingua, nel linguaggio il soggetto è colui che subisce, che è assoggettato. Il linguaggio così istituito e sedimentato, come un coacervo tirannico di luoghi comuni, è visto come una costante ed implicita minaccia che va debellata a tutti i costi. Per tutta la sua vita, il lavorio di Carmelo Bene è stato quello di dedicarsi a una pratica certosina di destrutturazione del linguaggio, alla ricerca dei suoi buchi neri, scardinando così la sua istituzionalizzazione e normalizzazione. Per quanto riguarda il lato artistico, lo scopo di tutto ciò è dare adito alla possibilità della realizzazione del Grande Teatro, o, in altri termini, del teatro senza spettacolo. Ciò rende chiara l'idea di come il depensamento e il lavorio intentato per la destrutturazione del linguaggio vadano di pari passo. Carmelo Bene non s'illude e, come per il linguaggio costituito a priori, al di là della volontà[82] del soggetto, si rende perfettamente conto che non si può evitare l'arroganza del potere del teatro, istituzionalizzato, il cui referente è sempre il teatro del potere, quello da lui definito di Stato, della rappresentazione. Nella memorabile trasmissione del MCS del 1994 Bene con veemenza proferisce parole significative riguardo al linguaggio e al suo potere che va ben al di là del soggetto e della volontà[82]. «È ora di cominciare a capire, a prendere confidenza con le parole. Non dico con la Parola, non col Verbo, ma con le parole; invece il linguaggio vi fotte. Vi trafora. Vi trapassa e voi non ve ne accorgete» Il senso; significante e significatoAnche le parti dialogate nel teatro di Carmelo Bene si svolgono in forma di monologo, con la conseguente perdita del senso del dialogo o del discorso. Si perde altresì il senso della direzione. Spesso notiamo nelle performance di C.B., per esempio, che un urlo lanciato con veemenza invece di spaventare si autospaventa, come se trovasse di fronte un muro di gomma che lo restituisse al mittente; uno dei tanti altri esempi può essere quando Riccardo III si sputa allo specchio dove si sta mirando, pensando o facendo credere di essere sputato. C'è in più questa perdita del senso di identità, senso di causa ed effetto, di agente e agito, fino a sfociare alla perdita dell'identità del ruolo, come in Amleto che non gradisce proprio la sua parte così come scritta nel copione. In una scena del Macbeth, C.B. lancia un urlo e poi dice quasi rassicurato: "No, chi di voi ha fatto questo?... Posso dire sono stato io?..." Nel teatro di C.B. è del tutto inutile e poco proficuo cercare il senso, la direzione, il significato o ancor peggio il messaggio, poiché si è sempre in balia dei significanti. Essere e non-essereBene avverte nella coscienza dell'essere e dell'esserci una forma di strabismo che ci identifica in ciò che in effetti non siamo e non possiamo mai essere. Essere cosa? se tutto è in divenire? Carmelo Bene ripropone i tre assiomi di Gorgia:
In questi tre paradossi gorgiani è facile rintracciare i concetti di assenza, irrappresentabile, incomunicabilità, che caratterizzano il teatro e la pragmatica filosofia di Bene. Il motto di Bene a tale proposito potrebbe essere, parafrasando la massima cartesiana, "non esisto: dunque sono"[84]. Oltre che sui giornali, riviste e opere letterarie, non è affatto raro che anche nelle sue apparizioni televisive l'artista salentino affronti il problema dell'essere, dell'esserci e del non-essere, trovando addirittura offensivo (più che fastidioso) questo rivolgersi a lui in modo ontologico[85]. La coscienza, la culturaLa "coscienza" [non la coscienza in sé o il noumeno kantiano], o "conoscenza", è ciò che si è sedimentato culturalmente e socialmente, che Bene aggredisce senza ripensamenti, specialmente se la "coscienza"' stessa diventa o si identifica nel civile. I suoi strali sono lanciati con rabbia anche contro la cultura (che per definizione è di Stato), il museo o il mausoleo, l'imbellettamento dei classici, le commemorazioni, la famiglia, ecc. L'elenco completo del resto sarebbe troppo esteso. Bene nella sua lettura derridiana, fa derivare etimologicamente "cultura" (nemica giurata dell'abbandono e della "divina stupidità") da colo, colonizzare. L'immagineIl rapporto che Carmelo Bene ha con l'immagine non è espressamente di iconoclastia, sebbene a volte possa sembrare il contrario[86]. Anzi, Bene afferma che l'immagine è volgare. Questa destrutturazione, più che distruzione, dell'immagine gli serve per portare l'ascolto su un diverso piano, talché anche l'immagine diventi funzionale e, comunque, sempre subordinata alla phoné, accentuandone o caratterizzandone l'espressione, valorizzandola allo stesso modo della gestualità di un direttore d'orchestra. Carmelo Bene "crede molto nei volti", e nelle posture, più o meno cangianti, tanto che lo sfondo delle sue messe in scena è sovente, e quasi del tutto, monocolore, preferibilmente nero o a volte bianco. Lo spazio scenico, o dell'inquadratura, specialmente per quanto riguarda i volti in primo o primissimo piano e le figure, spesso è illuminato con un forte chiaroscuro.[87] La parentesi cinematograficaSeppur limitato ad un breve periodo temporale, l’approccio al cinema di Carmelo Bene riesce a farsi partecipe della sua poetica e del suo pensiero, che, nel corso dei decenni, ha abbracciato poliedricamente gran parte delle arti e dei mezzi di comunicazione; oltre al teatro e al cinema, la sua produzione scritta è vastissima, come anche le sue apparizioni televisive sono entrate a far parte della storia della retorica italiana. Iconoclasta, provocatore, sperimentatore, Bene è tra le figure del Novecento più discusse e studiate in Italia, avendo avuto la forza e l’ego di approcciarsi in maniera tanto ardita alle arti, e, per poco ma non in maniera minore, al cinema.[88] La prima apparizione sul set cinematografico di Carmelo Bene come attore è nell'Edipo re di Pier Paolo Pasolini risalente al 1967. La parentesi cosiddetta cinematografica va dal 1967 al 1972 e sarà quella che gli darà notorietà e risonanza internazionale, e in Italia non senza scandali e attacchi feroci, non solo dalla critica dei detrattori ma anche dagli spettatori comuni, che causarono devastazioni selvagge e incendi nelle sale in cui avvenivano le proiezioni. Hermitage è il suo primo cortometraggio. Viene creata così la produzione C.B. che alla fine del quinquennio cinematografico subirà un rovinoso tracollo finanziario. Il successo inizia con Nostra Signora dei Turchi, presentato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, dove vinse il premio speciale della giuria, in concorso con i film presentati di Nelo Risi, Liliana Cavani e Bernardo Bertolucci. Seguiranno poi altri lungometraggi: Capricci (1969), rielaborazione personale dell'Arden of Feversham di anonimo elisabettiano, Don Giovanni (1971), Salomè (1972) e Un Amleto di meno (1973) con il quale termina l'interesse di Bene per il cinema. Tutte le produzioni della C.B. e della B.B.B.[89] sono realizzate a bassissimo costo. Le sue preferenze fin dagli esordi per Buster Keaton[56], e il totale disinteresse, se non disprezzo, per Charlie Chaplin[90], sono significativi per capire la matrice da cui evolverà il suo personale stile e il suo modo (oltre i modi) di fare cinema. Questo quinquennio gli è servito per demolire il cinema, infatti Nostra Signora dei Turchi viene oltretutto definito dallo stesso Bene una parodia spietata e feroce del cinema. E lo stesso immoderato trattamento è ravvisabile in altre produzioni di questo periodo. Considerazioni sul mezzo cinematograficoSecondo Carmelo Bene il cinema, ultimo arrivato, è la pattumiera di tutte le arti (tranne i rari casi in cui il film filma se stesso). Apprezza così João César Monteiro, oltre a Buster Keaton[56] e pochi altri[91], coloro cioè che hanno superato il cinema stesso, "poiché non si può fare cinema col cinema, poesia con la poesia, pittura con la pittura, bisogna sempre fare altro...".[92] Ritroviamo nel cinema, comunque, lo stesso furore iconoclasta e le posizioni estreme che caratterizzano la sua produzione teatrale. Per Carmelo Bene l'opera d'arte (il capolavoro) deve rappresentare l'arte ecceduta e non un semplice decorativismo o confezione infiocchettata, ovvero l'arte come superamento di se stessa; in altri termini, riprendendo quando già detto da Nietzsche, fuori dell'opera d'arte "si è dei capolavori". Bene era solito affermare che nei cosiddetti film d'azione non si "muove un bel niente", contrariamente a certi capolavori come le tele di Francis Bacon o alcune opere del Bernini (come la Beata Ludovica Albertoni) che possiedono una forma di "energia dinamica sospesa". Carmelo Bene detesta gli effetti speciali: per esempio, trova il rallentatore e lo zoom oltremodo volgari. Se un torero d'arte[93], come tenta di definirsi lui stesso, "mette in gioco la pelle", "il cinema invece non rischia la pellicola", non si mette in gioco, non sente il bisogno contingente di "essere di qua e di là dalla macchina da presa", di essere nell'immediato. In Nostra Signora dei Turchi proprio la pellicola fu variamente calpestata, bruciacchiata, rovinata in modo metodico. Bene ricordando quell'esperienza dice: «La mia frequentazione cinematografica è ossessionata dalla necessità continua di frantumare, maltrattare il visivo, fino talvolta a bruciare e calpestare la pellicola. M'è riuscito filmare una musicalità delle immagini che non si vedono, per di più seviziate da un montaggio frenetico.[94]» Interventi televisiviDurante gli ultimi anni della sua vita, Bene prese parte a numerosi programmi televisivi, che lo resero noto anche al pubblico generalista che non conosceva la sua produzione teatrale e cinematografica. Tra queste le più note sono quelle al Maurizio Costanzo Show nel 1994 e 1995, quest'ultima motivata dalla pubblicazione delle sue opere nella collana Classici Bompiani. A tal proposito partecipò, sempre nel 1995, a una puntata di Tappeto Volante, durante la quale, in linea con il suo tipico modo di fare, si prese gioco del giornalista Roberto Cotroneo, per aver scritto un articolo in cui lo attaccava. Celebri furono i suoi contributi per tutte e otto le puntate del programma Sushi, andato in onda su MTV nel 1999, al termine di ciascuna delle quali veniva mandato in onda un suo breve monologo (3-5 minuti) sul tema che era stato trattato nel corso della trasmissione. In particolare i temi degli episodi furono: Cultura, Lavoro, Fede, Tempo, Identità, Morte, Sentimento. Questo programma contribuì a far conoscere C.B. tra i giovani dell'epoca, che lo apprezzavano soprattutto grazie alle sue idee controcorrente e al modo di esprimersi sopra le righe.[95][96][97][98][99][100][101] Il rapporto con la criticaBene ha sempre rifiutato "qualsiasi funzione di mediazione alla critica"[102], al di là del metodo usato, della sua obiettività, accondiscendenza o buona fede.[103] Secondo Piergiorgio Giacché, «Carmelo Bene nega da sempre al critico-giornalista (e perfino al critico-studioso, che per lo più resta fastidiosamente esterno all'opera) una reale cittadinanza».[104] Il disprezzo da lui riservato alla critica teatrale e al giornalismo dei "gazzettieri", è proverbiale.[105] Fin dall'esordio e per diversi anni, Bene fu stroncato o ignorato dalla critica e dai mass-media italiani. Del suo debutto a Roma con Caligola, il giornalista John Francis Lane scrisse una recensione elogiativa sul Times, provocando reazioni concitate tra i critici italiani che interpellarono lo stesso Lane per chiederne ragione. «Abbiamo capito subito che era un attore straordinario e che avrebbe fatto bene al teatro. [...] E io ho scritto subito un articolo sul Times di Londra, dicendo che questo era un nuovo uomo di teatro eccezionale. La cosa ha fatto un po' scandalo a Roma perché dicevano: "... ma come? il Times parla di questo cialtrone?..." Poi questo cialtrone sarebbe diventato una icona della cultura italiana.[106]» In un'intervista televisiva del 1968 Carmelo Bene esplica la sua opinione: «Io non ho davvero... rapporti con la critica. Sono loro che sono pagati per averne con me. Quindi per loro è un mestiere... Io non sono pagato per avere rapporti con loro. [...] Per capire un poeta, un artista [...] ci vuole un altro poeta e ci vuole un altro artista [...] La critica vive dalle 22 alle 24, cioè due ore la sera. Non puoi due ore la sera capire quello che invece io continuo a vivere ora per ora [...][107]» Giuliana Rossi, all'epoca moglie di Carmelo Bene, descrive il rapporto conflittuale fra Bene e i critici italiani: «...appena Carmelo apriva bocca, la maggior parte dei critici che venivano a fare le recensioni al Teatro Laboratorio gli davano del "cretino" come minimo. La stampa parlava male, malissimo di lui [...] L'ostracismo del mondo della cultura italiana si manifestava anche nei confronti di chi aveva lavorato con lui. Quando alcuni attori si presentavano in altre compagnie teatrali, dicendo che avevano recitato con mio marito, gli chiudevano ogni porta senza giustificare il motivo. Appena veniva nominato "Carmelo Bene" il diniego era immediato.[108]» Carla Tatò conferma lo stesso boicottaggio nei suoi confronti per il fatto di aver lavorato come attrice nel teatro di Carmelo Bene[109]. Secondo Bene, i primi anni della propria carriera furono i più difficili anche a causa della critica[110], costretto a svolgere il ruolo dell'artista maledetto, a vivere avventurosamente, a praticare la sua attività teatrale con sotterfugi. Specialmente nel periodo iniziale della sua carriera, non è affatto raro che critici e giornalisti si accaniscano contro i presunti abusi perpetrati da Bene ai danni del buon costume e dei luoghi comuni. La Salomè del '64 aveva un cast di attori formato prevalentemente da carcerati o ex-galeotti, soprannominata compagnia di Regina Coeli. In una recensione di quest'opera fatta sulle pagine del "Borghese", si legge: «Dinanzi a personaggi come Carmelo Bene e come Franco Citti nulla può la critica teatrale. Debbono intervenire i carabinieri. E non bisogna aspettare che vilipendano la Religione o prendano a calci i lavoratori, per procedere al loro arresto; bisogna soltanto accertarsi della loro identità e metterli in galera, perché oltraggiano il buon gusto, nuocciono all'igiene pubblica, deturpano il paesaggio.[111]» C'è una frattura, almeno nella prima parte della carriera, tra fautori e detrattori. Secondo Alberto Arbasino: Questa critica detrattiva condotta per diversi anni, caratterizzerà l'atteggiamento di Bene nei confronti dei critici, dei parvenu e dei "gazzettieri". Lydia Mancinelli ricorda: "La lotta di Carmelo Bene è stata una lotta contro i critici".[113] Il successo cominciò con uno stratagemma scrivendo e inviando a sei giornali diversi la recensione di una sua esibizione teatrale, tutte portanti la firma di un certo "Dice".[114] Questo successo incominciò con la parentesi cinematografica[115] e precisamente con Nostra Signora de' Turchi che, tra il 1973 al 1974, iniziò ad essere trasposta di nuovo in Teatro[116]. Da qui ci fu sempre un crescendo di critica e successi. Clamorosa fu la presa di posizione di Carmelo Bene al lido di Venezia, quando presentò Nostra Signora dei Turchi, dichiarando con veemenza, e che non aveva alcuna intenzione di parlare con la stampa italiana. Carlo Mazzarella, inviato della Rai, commenta: «Carmelo Bene ha dichiarato che avrebbe abbandonato la conferenza stampa, se tutta la stampa italiana non avesse abbandonato la sala, perché ha detto di avere dei fatti personali contro tutta la stampa italiana...» Significativo fu il confronto a Mixer Cultura[117], nella trasmissione del 15 febbraio 1988, condotta da Arnaldo Bagnasco, nella quale apparvero in modo chiaro le posizioni dei critici e degli studiosi suoi fautori come Jean-Paul Manganaro, di Maurizio Grande. Fra i critici invitati alla trasmissione Guido Davico Bonino assume posizioni estreme, rispetto a quelle più moderate di Giovanni Raboni, Renzo Tian e Guido Almansi, dicendo: «Qui si sta parlando di Carmelo Bene come di uno scrittore di scena, si sta parlando di Carmelo Bene come un attore, ma mi pare che l'unica cosa di cui si possa parlare è la sua vera professione, cioè: l'antipatico. Come antipatico Carmelo Bene è assolutamente inarrivabile. [...] Questo è la cosa di te che io amo di più, perché davvero tu qui hai una vera creatività... Ma come scrittore scenico sei di una modestia sconfortante; le tue partiture, i tuoi collage sono una pacchianeria veramente giovanilistica [...][118]» Altri eventi mediatici clamorosi e significativi simbolici del rapporto con la critica[119] e i giornalisti[120] sono le sue due apparizioni televisive al MCS del 1994 e 1995. Studiosi dell'opera benianaTra gli studiosi e i fautori in Italia dell'opera di Carmelo Bene ci furono Maurizio Grande, Piergiorgio Giacchè e Goffredo Fofi. Ne sono stati strenui difensori, fra gli altri, agli inizi della sua carriera, Ennio Flaiano e Alberto Arbasino. Se ne sono interessati, tra gli altri, Giuseppe Bartolucci, Oreste Del Buono, Franco Quadri, Umberto Artioli, Edoardo Fadini, Enrico Ghezzi, Giancarlo Dotto e Ugo Volli, Maurizio Boldrini. Fra gli intellettuali stranieri ci furono Gilles Deleuze, Jean-Paul Manganaro, André Scala, Camille Dumoulié e Pierre Klossowski. Vita privataEra un grande tifoso del Milan. Della squadra rossonera disse: Il Milan è un fatto culturale, un fenomeno estetico. Il Milan eccede la Materia. È celeste. Carmelo Bene era un accanito fumatore di Gitanes, al punto che non presenziava in televisione se non gli era consentito di fumare in diretta. Era marito di Raffaella Baracchi, Miss Italia 1983, dalla quale nel 1992 ha avuto la figlia Salomè. TeatroDove non altrimenti specificato, autore, regista e interprete[27] è Carmelo Bene. Gli esordi: il rifiuto delle Accademie e il Teatro Laboratorio
Dopo il Teatro Laboratorio e l'inizio del sodalizio con Lydia Mancinelli
Gli anni settanta ed ottanta: grandi trionfi in scena e successi televisivi
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