Secondo la leggenda, le origini della basilica sono connesse a una visione del dogeJacopo Tiepolo, che donò nel 1234 l'oratorio di San Daniele ai frati domenicani, presenti in città da oltre dieci anni. Subito si costruì la chiesa duecentesca, dedicata ai martiri romani del IV secolo Giovanni e Paolo. L'aumento dell'attività dei frati domenicani impose ben presto un ampliamento, che fu diretto dai due frati domenicani Benvenuto da Bologna e Nicolò da Imola; il cantiere fu chiuso nel 1343, ma i lavori di abbellimento durarono ancora quasi un secolo: il 14 novembre 1430, la chiesa fu solennemente consacrata. Nel 1581, il monastero ospitava 35 religiosi ed era uno dei più grandi della città.[2] Da allora fu continuamente arricchita di monumenti sepolcrali, dipinti e sculture opera dei maggiori artisti veneziani, finché nel 1807, in piena età napoleonica, i domenicani vennero allontanati dal loro convento, trasformato in ospedale, e la chiesa viene privata di numerose opere d'arte. Nella notte tra il 15 e il 16 agosto 1867 un incendio distrusse completamente l'annessa Scuola Grande del Rosario (ora cappella), insieme ai dipinti che vi erano conservati. Lo scrittore antirisorgimentale padovano Alessio De Besi (1842-1893), nel suo romanzo Cuore d'artista (1867), considerò l'incendio come l'ennesimo atto di vandalismo compiuto dagli atei, riferendosi esplicitamente a «un'empia e sacrilega mano»[3]. Durante la seconda metà dell'Ottocento il movimento ateistico nel Veneziano aveva come guida il barone inglese Ferdinando Godwin Swift (1831-1890); le bande degli atei erano molto attive e danneggiarono capitelli e immagini sacre tra le calli[4], tuttavia De Besi non fornisce prove che confermino la sua accusa.
Il restauro di questa cappella si concluse nel 1959.
Descrizione
L’esterno
Campo Santi Giovanni e Paolo
Esterno
La chiesa si presenta con un'alta facciata a salienti, aperta da un rosone centrale e da due occhi laterali. La parte bassa è caratterizzata da sei nicchioni gotici, che custodiscono alcuni sepolcri, e dal grande portale, ornato da sei colonne di marmo proconnesio qui trasportate nel 1459. Autori dell'opera sono Bartolomeo Bono fino ai capitelli, il maestro Domenico Fiorentino per il fregio, e magister Luce per la parte sommitale. Il corpo centrale della facciata è coronato da tre particolarmente elaborate guglie a tempietto: all'interno ospitano le effigi dei tre santi domenicani maggiori mentre le statue di altri dedicatari sono disposte ai quattro angoli delle cuspidi. Al centro è san Domenico con sopra quattro santi dell'ordine e il Padre Eterno sulla cima, a sinistra è san Pietro martire con gli evangelisti e l'aquila di Giovanni, a destra è san Tommaso d'Aquino con quattro dottori della chiesa e il leone di san Marco[5].
Al fianco che prospetta sul campo si addossano varî edifici e cappelle:
Scuola del Nome di Gesù, bassa costruzione rettangolare
cappella del Nome di Gesù, di stile gotico, intorno alla quale è stata riportata alla luce l'originaria pavimentazione del campo
abside semicircolare della cappella della Madonna della Pace
Sul retro si può ammirare il complesso delle absidi, aperto da slanciatissime finestrature gotiche, tra le più alte espressioni del tardogotico veneziano.
La cupola a doppia calotta (altezza interna: 41 m; altezza esterna 55,40 m) fu aggiunta alla fine del Quattrocento.
La pianta è a croce latina con transetto e tre navate suddivise da enormi colonne cilindriche (eccettuate la quarta a sinistra e a destra, che sono pilastri formati dall'unione di tre colonne cilindriche più sottili). Le altissime volte gotiche sono collegate da tiranti lignei, che hanno la funzione di contrastare le spinte generate dalle volte a crociera e degli archi. Le dimensioni sono veramente grandiose: 101,60 m di lunghezza, 45,80 di larghezza nel transetto, 32,20 di altezza. Alle pareti, interamente rifinite con una tramatura a regalzier (finto ammattonato), alle navate sono addossati numerosi monumenti, e a destra si aprono le cappelle. Anche sul transetto si affacciano due cappelle per lato, che affiancano il presbiterio.
Fino al Seicento la navata maggiore era divisa trasversalmente in due parti (come avviene ancora oggi nella Basilica dei Frari) dal coro dei frati, che fu demolito per dare spazio alle solenni celebrazioni che si svolgevano in questa chiesa, per esempio i funerali dei dogi. Unico avanzo di questa monumentale struttura sono i due altari (di Santa Caterina da Siena e di San Giuseppe) che si trovano all'incrocio tra la navata e il transetto, rispettivamente a destra e a sinistra.
a sinistra, monumento funebre al doge Pietro Mocenigo, terminato nel 1481 da Pietro e Tullio Lombardo. È il primo monumento in cui i Lombardo si discostano dalla tradizione: la principale innovazione consiste nella tripartizione, secondo il modello degli archi di trionfo romani. Inoltre è innovativa la posizione eretta e fiera del doge: è rappresentato come già risorto, e dunque posto in asse con la statua del Cristo risorto.
a destra, monumento al doge Giovanni Mocenigo, opera di Tullio Lombardo, completata nel primo decennio del Cinquecento. È il monumento sepolcrale lombardesco in cui si affermano pienamente i principi dell'architettura rinascimentale: le superfici sono lisce e non invase dalle decorazioni, le proporzioni sono corrette, i capitelli sono una copia perfetta dei capitelli compositi dell'Arco di Tito a Roma
Prospetto dell'urna del doge Renier Zen, raffigurante il Redentore sostenuto da due angeli, di stile bizantineggiante.
Altare rinascimentale con una Madonna con Bambino e santi di artista quattrocentesco, un tempo attribuita a Giovanni Bellini. Fu qui portata nel 1881 dalle Gallerie dell'Accademia dopo che la pala originale, capolavoro di Giovanni Bellini, venne distrutta nell'incendio della cappella del Rosario.
Monumento a Marcantonio Bragadin, eroe veneziano scorticato vivo dai turchi dopo la presa di Famagosta. Ciò che rimaneva della sua pelle fu portato qui nel 1596, e esaminato scientificamente nel 1961. L'architettura è dello Scamozzi, il busto di un allievo del Vittoria, mentre il chiaroscuro, che rappresenta il Martirio del Bragadin è di incerta attribuzione.
Altare dedicato al domenicano spagnolo San Vincenzo Ferrer. È ornato dal grandioso Polittico di San Vincenzo Ferrer (1464-1470) di Giovanni Bellini in nove scomparti: nel registro centrale si trovano le grandi figure di San Vincenzo, al centro, di San Cristoforo a sinistra e di San Sebastiano a destra. Negli scomparti superiori sono rappresentati al centro il Cristo morto sorretto da angeli, e ai lati l'Arcangelo Gabriele e la Vergine Annunciata, con lo sguardo rivolto verso l'alto, dove in origine si trovava la lunetta con l'Eterno. Nella predella sono raffigurati alcuni miracoli di san Vincenzo: a sinistra il Santo salva una donna da un fiume e protegge una donna e un bambino da un crollo; al centro la Predica di Toledo, in cui il santo fa resuscitare due morti perché testimonino le verità da lui predicate; a destra il Santo resuscita un bambino e libera alcuni prigionieri. Sotto al polittico si trovano le spoglie del beato Tommaso Caffarini, confessore e primo biografo di santa Caterina da Siena.
Monumento del senatore Alvise Michel
Madonna con Bambino e santi di artista quattrocentesco
Monumento a Marcantonio Bragadin
Polittico di San Vincenzo Ferreri
Monumento del senatore Luigi Michel
Cappella del Beato Giacomo Salomoni, o del Nome di Gesù, in origine gotica, portata alle attuali forme barocche nel 1639.
Sulle pareti laterali due quadri del pittore di origine fiamminga Pietro Mera: a desta La circoncisione di Gesù ed a sinistra Il Battesimo di Cristo.
Sul pavimento di fronte alla cappella si trova la lastra sepolcrale a niello del decemviroAlvise Diedo che nel 1453 salvò la flotta veneziana a Costantinopoli. Canova la considerava "un vero gioiello d'arte".
La Crocifissione e la Maddalena; corpo del beato Giacomo Salomoni
La circoncisione di Pietro Mera.
Il Battesimo di Cristo di Pietro Mera.
Decorazione della volta
MausoleoValier, progettato da Andrea Tirali. Fra quattro colonne corinzie si trova un panneggio di marmo giallo, su cui si stagliano le statue del doge Bertuccio affiancata da quelle del doge Silvestro, a sinistra, e della moglie di Silvestro, la dogaressa Elisabetta Querini. Completano il monumento numerose statue e bassorilievi dei migliori scultori veneziani dell'epoca.
Il bassorilievo della base del monumento. Il gruppo di destra rappresenta: Costanza (autore sconosciuto); Carità e mitezza di Pietro Baratta. Il gruppo di sinistra rappresenta: la Pace di Antonio Tarsia, il Valore di ignoto, e il Tempo di Giovanni Bonazza.
Si accede dall'arco di destra che si apre sotto il Mausoleo Valier. Sopra l'altare si trova un'icona bizantina portata a Venezia nel 1349. Il soffitto: stucchi sono opera di Ottaviano Ridolfi, i quattro medaglioni sono dipinti di Palma il Giovane, e rappresenta le virtù di San Giacinto. Ai lati due grandi tele: a sinistra San Giacinto attraversa il fiume Dnepr, opera di Leandro da Bassano, e a destra Flagellazione dell'Aliense.
Costruita da Andrea Tirali (1690). Il soffitto racchiude la tela la Gloria di San Domenico (terminata nel 1727), opera del Piazzetta, uno dei migliori lavori del Settecento veneziano. Agli angoli del dipinto principale, quattro tondi a chiaroscuro con le virtù cardinali, sempre del Piazzetta. Alle pareti sono sei bassorilievi che raffigurano episodi della vita di San Domenico: cinque, in bronzo, sono opera di Giuseppe Maria Mazza; il sesto, in legno, è di Giobatta della Meduna.
Cappella di San Domenico
Il pavimento, in marmi policromi
Gloria di San Domenico del Piazzetta
I bassorilievi in bronzo da sinistra
I bassorilievi da destra
Altare di Santa Caterina da Siena. Apparteneva al distrutto coro dei frati. È stato modificato nel 1961 per inserirvi la reliquia del piede di Santa Caterina da Siena.
Altare di Santa Caterina da Siena e la reliquia del piede
Sulla parete destra la raffinata strutture tardo-cinquecentesca del monumento all'ambasciatore inglese baroneOdoardo Windsor, morto nel 1574, è attribuita sempre al Vittoria o al suo ambiente[7].
A sinistra il sarcofago trecentesco che si presume accolga i resti di Paolo Loredan, procuratore di Candia. In mancanza di un'iscrizione la supposizione viene generalmente supportata del rilievo centrale dell'urna col santo eponimo. Si presume anche che, confrontando la morbidezza dei rilievi sull'urna — il San Paolo appunto e l'Annunciazione agli angoli — con la scabra figura del sepolto tuttavia puntigliosa nella descrizione dell'armatura, l'urna pensile sia opera di due diversi anonimi lapicidi[8].
L'altare è opera del Vittoria, il Crocifisso di Francesco Cavrioli
La pala marmorea dell'altare — di scuola padovana ma ancora legata ai modi lombardeschi — è un buon esempio del gusto del primo Cinquecento. Solo la statua centrale della Maddalena, opera di Guglielmo Bergamasco, è estranea in quanto proviene dall'altare di Verde della Scala ai Servi[9].
A destra, monumento a Vettor Pisani, soltanto la statua è originale: il complesso che si trovava nella demolita chiesa di Sant'Antonio di Castello fu ricostruito liberamente solo nel 1921. Per quanto opera di anonimo, resta interessante la statua del Pisani, una delle prime rappresentazioni (siamo a fine Trecento) dell'eroe defunto in piedi, vivente nell'autorevolezza della sua tenuta guerresca[10].
Sotto a questa verso l'apertura della cappella il monumento a obelisco al pittore Melchiorre Lanza cui fu aggiunta la statua Melanconia di Melchior Barthel probabilmenta destinata ad altro scopo (Barthel morì due anni prima del Lanza)[11].
Monumento al pittore Melchiorre Lanza
Melanconia di Melchior Barthel
Melanconia di Melchior Barthel - lo specchio della vanità
Aperto dagli altissimi finestroni gotici, splendidamente illuminati specialmente nelle ore mattutine, è scandito dagli snellissimi costoloni che si riuniscono nella chiave di volta con lo stemma della Scuola Grande di San Marco, che qui si riuniva.
A partire dalla parete destra vi si trovano:
monumento al doge Michele Morosini. La figura giacente del doge è opera della bottega di Pierpaolo e Jacobello dalle Masegne. Un arcone racchiude un mosaico dell'inizio del Quattrocento raffigurante il Crocifisso attorniato da santi che presentano il doge e la dogaressa inginocchiati.
monumento al doge Leonardo Loredan, datato al 1572. L'architettura è di Girolamo Grapiglia; la statua del doge di Girolamo Campagna; le statue allegoriche di Venezia (a sinistra), della Lega del Cambrai (a destra), dell'Abbondanza e della Pace (negli intercolumni) ed i bassorilievi, sono opere di Danese Cattaneo.
monumento funebre del doge Andrea Vendramin, considerata prevalentemente opera di Tullio Lombardo, qui trasportata nel 1817 dalla distrutta chiesa dei Servi. In questa tomba Tullio lavora indipendentemente dal padre Pietro: le decorazioni si fanno meno esuberanti, dando all'architettura un carattere più classico, confermato anche dai tondi sopra l'arcata sul modello dell'Arco di Augusto a Rimini. La struttura fu soggetta a qualche modifica rispetto alla configurazione originale ai Servi e che ci è nota grazie ad un'incisione di Cicognara. Nelle nicchie laterali sono state eliminate le statue di Adamo ed Eva, scambiate con le due statue di guerrieri che erano poste sui piedritti esterni, sostituite a loro volta dalle figure delle sante Margherita e Maddalena (opera di Lorenzo Bregno e provenienti dall'altare maggiore di Santa Marina). Oggi la statua di Adamo è giunta al Metropolitan Museum mentre quella di Eva esiste solo una copia di fine '500 al Museo Correr. Nella stessa ricostruzione vennero anche eliminate le due statue dei paggi porta scudo che ornavano le estremità della cornice superiore, oggi sono conservate mutile al Bode-Museum di Berlino[12]. Sul muro a destra del monumento sono visibili alcuni avanzi di affresco di una più antica sepoltura attribuiti dubitativamente ad Altichiero.
monumento al doge Marco Corner (m. 1368), con statue Madonna col Bambino, San Pietro, San Paolo e due Angeli di Nino Pisano (firmato).[13]
A sinistra monumento alla moglie di Venier, la dogaressa Agnese da Mosto, alla loro nuora Petronilla de Tocco e alla nipote Orsola Venier, opera attribuita a Filippo di Domenico e Gherardo di Mainardo e fatta erigere da Nicolò Venier, figlio della coppia dogale, marito di Petronilla e padre di Orsola.
Qui sorgeva fin dal Trecento una cappella dedicata a San Domenico, poi sostituita nel 1582 dalla cappella della Scuola del Rosario, dedicata alla Madonna del Rosario, nella cui ricorrenza (7 ottobre 1571) avvenne la battaglia di Lepanto. Bruciò nel 1867 insieme ai capolavori che vi erano contenuti: il soffitto in legno dorato con tele del Tintoretto e di Palma il Giovane, altre 34 tele, e soprattutto il Martirio di san Pietro di Tiziano e la Madonna e Santi di Giovanni Bellini che vi erano depositati per restauro. A seguito di un lungo e travagliato iter di restauro, fu inaugurata nel 1922.
La cappella è formata da una navata rettangolare e da un presbiterio quadrato, entrambi coperti da un soffitto intagliato di Carlo Lorenzetti inaugurato nel 1932.
Nel soffitto della navata sono racchiusi tre capolavori del Veronese qui portati dalla chiesa dell'Umiltà alle Zattere: l'Adorazione dei Pastori, l'Assunta e l'Annunciazione. Sulla parete di fondo un'altra Adorazione dei pastori sempre del Veronese. Sulla parete destra Gesù morto dello Giovanni Battista Zelotti, Gesù incontra la Veronica di Carlo Caliari, il bel San Michele sconfigge Lucifero, di Bonifacio de' Pitati. Sulla parete sinistra: Martirio di Santa Cristina di Sante Peranda, Lavanda dei piedi e Cena eucaristica di Benedetto Caliari, San Domenico salva dei marinai invitandoli alla preghiera del rosario del Padovanino. Le due pareti laterali sono fiancheggiate da dossali lignei di Giacomo Piazzetta (1698).
Il soffitto del presbiterio è ornato da altre opere del Veronese: al centro la tela quadriloba dell'Adorazione dei Magi (1582), agli angoli i quattro Evangelisti. L'altare è sormontato da un tempietto quadrato di Girolamo Campagna, al cui interno si trova la statua novecentesca della Madonna del Rosario, scolpita da Giovanni Dureghello nel 1914. Tutto intorno all'altare sono stati ricomposti dopo l'incendio dieci bassorilievi settecenteschi. Il resto del presbiterio è decorato con statue e bassorilievi.
Partendo dal transetto vi si possono ammirare principalmente:
Un altare cinquecentesco, già parte del coro, con un San Giuseppe della scuola di Guido Reni
L'organo costruito da Beniamino Zanin nel 1912, entro una monumentale cassa. Il progetto fonico dello strumento fu curato dai maestri D. Thermignon e O. Ravanello. L'organo Zanin comprende la maggior parte del materiale fonico appartenente al precedente strumento di Gaetano Callido, opera 267 del 1790. Una caratteristica assai importante è che il registro di Principale, in facciata, presenta la canna più lunga di 16', corrispondente al Do-1. È l'unica opera callidiana ad avere questa caratteristica. Infatti negli organi veneziani settecenteschi più grandi si poteva trovare come base il Principale 12', corrispondente al Fa-1. Lo strumento è a trasmissione meccanica.[16]
Monumenti al doge Michele Steno e ad Alvise Trevisan († 1528) letterato e benefattore – lasciò al convento la sua ricchissima biblioteca – entro due arcate. Quest'ultimo è opera cinquecentesca di Bartolomeo Bergamasco, e fu unito solo più tardi all'altra tomba, che invece è medievale. Sopra le due arcate sono poste due statue provenienti dalla chiesa di Santa Giustina, il San Pietro Martire e il Tommaso d'Aquino probabilmente rispettivamente di Antonio Lombardo e Pietro Paolo Stella.
Monumento al senatore Giambattista Bonzio († 1508), sopra i monumenti Sten e Trevisan, eretto nel 1525 da Pietro Paolo Stella.
Monumento equestre in legno dorato al generale Pompeo Giustiniani, detto "braccio di ferro", opera seicentesca di Francesco Terillio da Feltre.
Monumento al doge Tommaso Mocenigo, opera di Pietro di Niccolò Lamberti e Giovanni di Martino da Fiesole del 1423, che unisce elementi ancora gotici a elementi rinascimentali, oltre a denotare una certa influenza dell'arte di Donatello (specialmente nel guerriero all'angolo sinistro del sarcofago, che deriva dal San Giorgio).
Monumento al doge Nicolò Marcello, di Pietro e Tullio Lombardo, costruito tra il 1481 e il 1485. Ancora più che nel monumento di Pietro Mocenigo, qui è evidente la derivazione dagli archi di trionfo romani, con le colonne libere e avanzate, la trabeazione in aggetto sopra i capitelli, e i tondi sopra all'arco, come nell'arco di Augusto di Rimini.
Monumento equestre barocco al generale perugino Orazio Baglioni († 1617), di un autore ignoto del XVII secolo.
Monumento ai patrioti fratelli Bandiera e Domenico Moro, le cui salme, nel 1867, furono qui traslate dal Duomo di Cosenza, città in cui avevano subito la fucilazione insieme ad altri sei compagni nel 1844.
È completamente ornata da dipinti che costituiscono una vera e propria esaltazione dell'Ordine domenicano, eseguiti tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Seicento. I più importanti sono il Cristo portacroce di Alvise Vivarini, la vasta tela di Leandro da Bassano, di fronte alla porta, Onorio III approva la regola di San Domenico, il Crocifisso adorato da santi domenicani, sull'altare, di Palma il giovane, e San Domenico e San Francesco, sopra la porta, di Angelo Lion.
Francesco Fontebasso : Allegoria della Fede. Su entrambi i lati di quest'opera sono collocati due dipinti di Pietro Mera raffiguranti San Giovanni e San Polo, cui è dedicata la basilica.
Andrea Vicentino: Il sogno del Doge Jacopo Tiepolo e la donazione del terreno della basilica (1606). Sopra: Gian Sisto di Laudis, Dominicana Ritratti (circa.1610)
La Vergine invio sulla terra, i due fondatori Domenico e Francesco da Marco Vecellio
Convento
Sorse insieme all'attigua chiesa ed era già terminato nel 1293. Fu ricostruito da Baldassare Longhena tra il 1660 e il 1675. Oggi ospita l'Ospedale civile di Venezia.
È articolato intorno a due chiostri e a un cortile. Ad est si trova il dormitorio dei frati, attraversato da un lunghissimo corridoio su cui si aprono le celle. Lo scalone del Longhena si caratterizza per i magnifici intarsi marmorei; la biblioteca conserva ancora il bellissimo soffitto ligneo di Giacomo Piazzetta (1682), con dipinti di Federico Cervelli. Frati illustri di questo convento furono lo storico e teologo Girolamo da Forlì, che proprio a Venezia ottenne la licenza in teologia, nel 1391, e Francesco Colonna, autore della Hypnerotomachia Poliphili.
Primo chiostro
Il doge Marino Zorzi fu sepolto nel chiostro, a fianco a lui fu sepolta la sua dogaressa nel 1320[17][18]. Si perse memoria del punto esatto dove furono sepolti Marino e la moglie Agneta (o Agnese), così i frati apposero una lapide commemorativa[19].
Attuale convento
Attualmente il convento domenicano ha sede in quella che era la Scuola di Sant'Orsola. La comunità domenicana a Venezia ha come sua missione, oltre alla cura pastorale della parrocchia, la promozione di incontri culturali, la predicazione del messaggio cristiano attraverso l'arte e la catechesi.
^Attribuita al Litterini per la prima volta in Pier Liberale Rambaldi, La Chiesa dei ss. Giovanni e Paolo e la cappella del Rosario in Venezia, Venezia, 1913, p. 27. citato in Zava Boccazzi 1965, p. 350.
^ Francesco Zazzera, Della nobilta dell'Italia parte prima. Del signor D. Francesco Zazzera napoletano. Alla sereniss. e catol. maesta' del re Filippo 3. nostro signore, 1615, p. 16.
«MARINO huomo eloquentissimo, fu di maniera versato ne la Politica, e ne le ragioni di Stato che prevalendo la sua opinione, in tutte le Consulte, e Consegli, in maniera si sollevò, che gli ne toccò à seder nel Segio Dogale, dopo la morte di Pietro Gradenigo, nel qual luogo governò Doge 49° essendo creato secondo la più vera epinione l'an.1311.perche altri vogliono che fusse nel 1303.oue conoscendosi (dato però à la vita dopo spirituale, e contemplativa) non potere, conforme al suo desiderio attendere; anzi pur troppo strana parendogli, e diversa l'una da l'altra operazione, detestando i suoi primi studi, e pentito di haver cosi follemente Spesi tanti anni; mosso da divina ispirazione, il decimo mese, e decimo giorno del suo dominio, à quella dignità renunziando, si ritirò in una sua Villa, ove remoro da le pratiiche, conversazioni e del secolo; alcuni vogliono che morisse ne la Religion di Benedettini, ed altri ne l'antica sua solitudine, ove fin dal principio menar vita si elesse in tutto ritirata dal mondo: e così fu invero, perche avanzandosi continuamente ne la inselvatichir se medefimo, menò quasi vita Eremitica fino al 1320 che rendè lo spirito al suo Creatore, acqui Standofi un soura nome di Santo; e porgendo occasione à parenti più affezzionati, di originarsi nuovo coagnome. posciache cresciuta vedendosegli fina a le spalle una Zazzera, à capelliera, com'era da tutti de la Zazzera menzionato, così à Pietro suo fratello fu cagione di toglierla per sua Impresa nel viaggio de l'Ambasceria, ove fu destinato; ed à soccessori suoi dopò di formarlo nuovo cognome: che fatto ciò brevemente il sudetto Andrea Dandolo ne la sua Cronica accenna con le parole sudette, soggiungendo di vantaggio, come a proprie sue spese, edificasse il nobilissimo Tempio di San Domenico; dotandolo eziandio di rendita conveniente per molti padri: tutto che si contentasse far sepellir le sue ossa, ne la Chiesa di S. Giovanni, e Paolo, ov'era la sua quasi continua abitazione.»
Lattanzio Bianco, "Discorso del dottor Lattanzio Bianco Napol. academico destillatore detto l'Acuto. Intorno al Teatro della nobiltà d'Italia, del dott. Flaminio De Rossi, oue particolarmente dell'origini, e nobiltà di Napoli, di Roma, e di Vinezia si ragiona", editore Isidoro Facij e Bartolomeo Gobetti,1607
Francesco Zazzera, "Della nobilta dell'Italia parte prima", editore Gio. Battista Gargano, & Lucretio Nucci, 1615
Sandro Della Libera, L'arte degli organi a Venezia, Firenze, Leo S. Olschki, 1962, ISBN978-88-222-2857-4.
Franca Zava Boccazzi, La basilica dei santi Giovanni e Paolo in Venezia, Venezia, Ongania, 1965.
Antonio Manno e Sandro Sponza, Basilica dei Santi Giovanni e Paolo : arte e devozione, Venezia, Marsilio, 1995.
Elena Lucchesi Ragni, Ida Gianfranceschi, Maurizio Mondini (a cura di), Il coro delle monache. Cori e corali, Milano, Skira, 2003, ISBN88-8491-533-3.
Giuseppe Pavanello (a cura di), La basilica dei Santi Giovanni e Paolo. Pantheon della Serenissima, Venezia, Marcianum Press, 2013, ISBN978-88-6512-110-8.