Varṇa![]() ![]() ![]() ![]() Varṇa (devanāgarī: वर्ण; s.m.; lett. "colore", ma anche "mantello", "apparenza esteriore", "colore del viso"[3]) è quel termine sanscrito con cui la cultura hindū intende indicare il proprio sistema delle caste[4]. A questo termine si accompagna un altro termine dal significato parzialmente sovrapponibile, quello di jāti (s.f., devanāgarī: जाति; lett. "nascita", "forma di esistenza", "posizione assegnata alla nascita"). Laddove tuttavia, come nota Louis Dumont[5], pur se si possono confondere i due termini, varṇa conserva il suo ruolo nella letteratura classica, mentre jāti indica più direttamente il sistema delle caste, e quindi le divisioni sociali, in India, essendo maggiormente legato alla sua funzione di assegnazione, fin dalla nascita, del devoto hindū. La mescolanza dei varṇa rende conto quindi della presenza di numerose sotto-jāti (upajāti). Le caste (varṇa, jāti)Secondo il Dizionario sanscrito italiano[6] il termine varṇa, quando è riferito al sistema delle caste, intenderebbe identificare il contrasto di colore della pelle, scuro nelle tribù aborigene dell'India con quello chiaro delle tribù degli Arii invasori[7]. Diversamente Gavin Flood rigetta l'ipotesi del suo collegamento con le caratteristiche somatiche, quanto piuttosto lo relaziona alle caratteristiche proprie dei guṇa, questi presenti in ogni realtà in grado variabile[8]. Oggi, a differenza degli studi indologici del passato, la maggioranza degli studiosi ritiene che tale nome, il cui significato in questo contesto non è stato ancora completamente chiarito, non abbia mai inteso riguardare le eventuali originarie caratteristiche somatiche degli appartenenti alle caste[9]. Il sistema castale indiano ha origini piuttosto antiche, già il Ṛgveda indica una suddivisione della società indoaria in quattro ambiti funzionali: (SA)
«yat puruṣaṃ vy adadhuḥ katidhā vy akalpayan (IT)
«Quando smembrarono Puruṣa, in quante parti lo divisero? Che cosa divenne la sua bocca? Che cosa le sue braccia? Come sono chiamate ora le sue cosce? E i suoi piedi? La sua bocca diventò il brāhmaṇa, le sue braccia si trasformarono nello kṣatriya, le sue cosce nel vaiśya, dai piedi nacque lo śūdra.» I brāhmaṇa (italianizzato in "brahmano") sono coloro che svolgono le funzioni sacerdotali o eminentemente religiose; gli kṣatriya sono coloro che svolgono le funzioni belliche o politico-amministrative (potere temporale, kṣatra); i vaiśya sono le persone comuni, coloro che svolgono le attività lavorative agricole, l'allevamento del bestiame o il commercio; all'ultima casta, gli śūdra, sono riservati i lavori servili svolti nei confronti delle altre tre caste, e storicamente raccoglieva i prigionieri di guerra e gli aborigeni resi schiavi (dāsa) dai conquistatori indoari. In questo modo, infatti, il successivo Manusmṛti interpreta il passo vedico: (SA)
«sarvasyāsya tu sargasya guptyarthaṃ sa mahādyutiḥ /
mukhabāhūrupajjānāṃ pṛthakkarmāṇy akalpayat (IT)
«Ma allo scopo di proteggere tutta la creazione il luminoso creò attività innate divise per quelli nati dalla sua bocca, dalle sue braccia, dalle sue cosce e dai suoi piedi. Ai sacerdoti ordinò di insegnare e di studiare, di sacrificare per sé stessi e di sacrificare per conto di altri, di donare e ricevere. Al sovrano, in breve, di proteggere i sudditi, di donare, di far celebrare i sacrifici, di studiare e di rimanere distaccato dagli oggetti dei sensi. All'uomo comune di proteggere il proprio bestiame, di donare, di far celebrare sacrifici, di studiare, di commerciare, di prestare denaro e di coltivare la terra. Il Signore assegnò al servo una sola attività: servire queste (altre classi) senza risentimento.» . L'appartenenza a uno di questi ambiti è per rigida discendenza (per "nascita" ovvero, in sanscrito, jāti quest'ultimo un altro termine comune per indicare il sistema castale), ovvero si è brahmano o kṣatriya solo se si è a sua volta figli di un brahmano o di uno kṣatriya. Il termine varṇa, "colore", è perché ad ognuna di queste caste viene assegnato un colore simbolico[10]:
Solo i primi tre varṇa sono indicati come ārya (nobili) e solo i maschi dei primi tre varṇa accedono allo stesso varṇa per mezzo di una iniziazione (dikṣā) detta upanayana[11], e per questo i loro appartenenti sono indicati anche come "rinati", "nati due volte" (dvija). Solo ai maschi dei primi tre varṇa è consentito lo studio e la pronuncia del Veda e delle Śruti, agli appartenenti al varṇa degli śūdra ed alle donne è consentito solo lo studio degli Itihāsa (Letteratura epica) e dei Purāṇa[12]. «[...] alle donne e ai śudra, sebbene abbiano anch'essi bisogno della scienza sacra (jñāna), è impedito di accedere al Veda, giacché essi sono privati del vantaggio di studiarlo (adhyayana) per non aver ricevuto l'investitura del cordone sacro (upanayana); conseguono però la conoscenza del dharma e del Bráhman per mezzo dei Purāṇa e di altri libri di questo genere.» Da tener presente anche che, dal punto di vista tradizionale, la letteratura degli Itihāsa-Purāṇa è una letteratura "scritta" a differenza di quella vedica che è una cultura, ancora, "orale" e che va appresa quindi solo mnemonicamente, essendo fondata soprattutto sulla sonorità. Essendo la scrittura una pratica che non dà in alcun modo accesso al "sapere" essa è affidata a persone di rango "inferiore"[13]. L'eredità dell'appartenenza castale è testimoniata dall'interpretazione dell'autore indiano Patañjali (II secolo a.C.) il quale nel Mahābhāṣya (II,2,6) sostenne che si è brāhmaṇa per nascita (jātibrāhmaṇa) a prescindere se si ha realizzato o meno la necessaria erudizione e preparazione spirituale. D'altronde, come evidenzia Stefano Piano[14], per lo stesso Mahābhārata[15], e nella narrazione è un brahmano a sostenerlo, si è brahmano in base al comportamento: così se un brahmano si comporta in modo riprovevole va considerato alla stregua di uno śūdra, viceversa se uno śūdra si comporta in modo nobile è senza dubbio come un brahmano. La nozione di karman finisce comunque per prevalere, ovvero se si è brahmani lo si è perché durante le vite precedenti si sono acquisiti dei meriti, viceversa gli śūdra sono tali per espiare delle colpe accumulate[16]. Così la Manusmṛti (anche Mānava-Dharmaśāstra, intorno al II secolo a.C.) spiega la trasmigrazione in una delle caste a seconda dell'influsso dei guṇa: (SA)
«yena yas tu guṇenaiṣāṃ saṃsarān pratipadyate (IT)
«Ora vi dirò, in breve e per ordine quali trasmigrazioni si ottengono in tutto questo (universo) con ciascuna di queste qualità: le persone lucide divengono dèi, le persone energiche divengono esseri umani, le persone tenebrose divengono sempre animali: questo è il triplice livello di esistenza. L'appartenenza ad un varṇa non indica quindi un'attività professionale, né tanto meno individua un gruppo di persone che svolge attività simili (śreṇi) esso indica piuttosto il ruolo e il compito religioso in cui è collocato un individuo fin dalla sua nascita secondo la tradizione vedica. Va tenuto presente che gli appartenenti alle famiglie relative alle prime tre caste sono appena l'8,5% dell'intera società hindū (questa computata in base al numero degli appartenenti alle quattro caste, esclusi quindi gli avarṇa) e che, per calcolare il numero degli dvija (i "nati due volte"), occorre sottrarre da questa percentuale le donne.[17]. Le sottocaste (upajāti)All'interno delle quattro caste (caturvarṇa) sopracitate si sono formate lungo i secoli circa tremila sottocaste (upajāti o anche jāti)[18] provocate, secondo i loro compilatori, dall'incrociarsi dei varṇa. Dal che si possono avere delle unioni "a pelo" (anuloma) quando il marito è di casta superiore alla moglie o "contropelo" (pratiloma) quando accade il contrario. Mentre le unioni all'interno della casta sono le uniche corrette, e le unioni anuloma sono tollerate, le unioni pratiloma sono invece considerate portatrici di "disgrazia". Così le donne di casta brāhmaṇa debbono necessariamente unirsi con uomini della loro stessa casta, se disgraziatamente, ad esempio, si uniscono a degli śūdra i loro figli saranno dei caṇḍāla, infimi tra i fuoricasta. La proliferazione delle jāti è motivata dalla presenza del kaliyuga e condannata fin dalla Bhagavadgītā come provocatrice dello stesso[19]: (SA)
«adharmābhibhavāt kṛṣṇa praduṣyanti kula-striyaḥ (IT)
«"Quando il disordine predomina, o Kṛṣṇa, le donne della famiglia si corrompono: quando le donne sono corrotte, o figlio di Vṛṣṇi, si produce la mescolanza delle caste."» L'ordine consiste nell'unione tra sposi appartenenti allo stesso varṇa, dove la moglie giunge vergine al matrimonio. Diversamente se i figli appartenenti alle caste degli dvija sposano una donna di casta immediatamente inferiore, ovvero unendosi "a pelo" (anuloma), sono simili solo al padre in quanto presentano un difetto materno (mātṛdoṣa). Mentre dall'unione:
Un figlio di un matrimonio tra genitori appartenenti alla stessa casta degli dvija che tuttavia non mantiene i voti religiosi è un vrātya (un inadempiente cacciato).
I fuori-casta (avarṇa)![]() Oltre agli hindu inseriti nel sistema castale vi è infatti il numeroso gruppo degli avarṇa (privi di colore, i "fuori casta"), gli "intoccabili" (niḥspṛśya). Tra gli avarṇa vi sono quelli che furono da sempre esclusi dalla società ārya, sia chi ne fu cacciato in quanto frutto di matrimoni intercastali sfavorevoli, sia chi aveva gravemente violato norme religiose, nonché gli "stranieri" indicati con il termine collettivo di mleccha ("che balbettano", analogo al termine di origine greca "barbari"). Come ricorda Klaus K. Klostermaier[20] l'India contemporanea, a partire dal 1950, non ha, come credono in molti, abolito tout-court il sistema castale, ma ha solo emanato leggi che puniscono coloro che discriminano quelli che oggi vengono indicati comunemente come dalit (gli oppressi) ovvero i fuori-casta. E se oggi il sistema castale del caturvarṇa non è facilmente applicabile "molti indiani ancora ne difendono i principi di fondo"[20]. Note
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