Sepolcro di Ferdinand van den Eynde
Il Sepolcro di Ferdinand van den Eynde è un monumento funebre realizzato da François Duquesnoy, sito nella chiesa di Santa Maria dell'Anima a Roma. Duquesnoy si assicurò la commissione per quest'opera, dedicata al defunto fratello del fiammingo Jan van den Eynde grazie a Pietro Pescatore, alias De Visschere, o Pieter Visscher, un mercante fiammingo.[1] Il sito per l'epitaffio di van den Eynde fu concesso dall'amministrazione della chiesa il 3 agosto 1633. Visscher e Baldoin Breyel supervisionarono l'esecuzione del sepolcro.[2][3] Entrambi erano stati amici del defunto, che apparteneva alla comunità olandese di Santa Maria dell'Anima a Roma.[1][3] La tomba fu completata tra il 1633 e il 1640.[4] I putti che compongono l'epitaffio di Ferdinand van den Eynde, in particolare il putto di destra, sono considerati «l'apice dell'evoluzione del putto nella Scultura»[4] e una delle più grandi realizzazioni del Duquesnoy.[4][5] Copie dei putti di van den Eynde, sia in gesso che in cera, furono proprietà di molti artisti di spicco a Roma e nel Nord Europa. Colate in gesso dei putti di van den Eynde sono presenti negli inventari degli studi romani dell'assistente del Bernini Peter Verpoorten e dell'artista italiano Ercole Ferrata, oltre che in quelli degli studi di Anversa di Erasmus Quellinus e del Rubens.[2][6] Sia Giovanni Battista Passeri che Giovanni Pietro Bellori hanno sottolineato la fama dei putti di van den Eynde, i quali funsero da modelli del putto ideale per gli artisti contemporanei.[4] Molti altri artisti, tra i quali Peter Paul Rubens e Johann Joachim Winckelmann (generalmente un aspro critico della scultura barocca[4]), hanno lodato i putti di van den Eynde. Nel corso dei secoli successivi, artisti provenienti da tutto il mondo si recarono a Roma per rappresentare l'epitaffio di van den Eynde nella pittura e nel disegno. Tra i disegni che sono giunti ai giorni nostri, vi sono quelli di Johan Sylvius, Jean-Robert Ango,[7] e Augustin Pajou.[8] ContestoL'amministrazione della chiesa concesse il sito per l'epitaffio di van den Eynde il 3 agosto 1633. Duquesnoy presumibilmente ricevette la commissione in questo momento.[3] Nella sua biografia del Fiammingo, Joachim von Sandrart si scusa per la mancata descrizione della tomba di van den Eynde, poiché il monumento fu completato dopo la sua partenza da Roma.[3] Sandrart partì da Roma nel 1635.[3] Il sito dell'epitaffio di van den Eynde è sulla parete posta direttamente di fronte alla tomba di Adriaan Vrijburgh, con le due tombe che si appoggiano su colonne su entrambi i lati. Vrijburgh fu un altro giovane nobile olandese cui monumento funebre fu anch'esso commissionato a Duquesnoy.[3] Benché con «schema tanto simile al monumento Vryburch», stilisticamente, il sepolcro di van den Eynde «si presenta con una concezione ben diversa: la chiara membratura architettonica della tomba non è più velata dai drappi; i putti [sono] di una plasticità più robusta e un modulato più tranquillamente ondulato [...] la visione pittorica-luministica cambia in uno stile più direttamente classico-sculturale, che poi diventa robusto e vitale nel monumento van den Eynde».[9] Duquesnoy ebbe Pietro Pescatore, alias De Visschere, o Pieter Visscher (un ricco mercante fiammingo) da ringraziare per le commissioni per i monumenti funerari di van den Eynde e Vryburgh.[1] De Visschere, un appassionato d'arte, prestò servizio nell'amministrazione di Santa Maria dell'Anima, e, come detto, fu direttamente coinvolto nella supervisione della commissione al Duquesnoy della tomba di van den Eynde.[1][2] SoggettoIl monumento funerario è un epitaffio, o cenotafio,[2] di Ferdinand van den Eynde, un mercante e collezionista d'arte olandese originario di Anversa, membro della colonia di neerlandesi a Roma.[1][3] Ferdinand era fratello di Jan van den Eynde, un mercante fiammingo stabilitosi a Napoli, e uno degli uomini più ricchi della città partenopea oltre che il suo collezionista d'arte più importante all'epoca.[10][11] Anche suo figlio, il marchese Ferdinando van den Eynde, divenne un collezionista d'arte.[3][12] Ferdinand van den Eynde morì prematuramente a Roma nel 1630. ComposizioneLo spettatore è attratto in primo luogo dalla maestria dell'artista, dal naturalismo dei putti, dalla carne lattiginosa dei neonati (con il marmo che, secondo Rubens, è «ammorbidito in carne viva»[4]), e da lì portato a contemplare le loro azioni.[3] Come osservato da Bellori:
Bellori sottolinea anche l'atto di lutto del putto di destra, evidente sia nella sua espressione che nel gesto di coprirsi il volto con il drappo. Eppure, allo stesso tempo, con la clessidra in mano e gli occhi coperti, «il putto diventa una personificazione infantile della morte cieca».[3] Inoltre, come notato da Estelle Lingo, «poiché la postura del bambino può essere intesa come il risultato della sua lotta per sollevare il drappo dalla tomba, la figura sembra giocare sulla critica teorica secondo cui la giovinezza del bambino lo ha reso inadatto al suo 'monumentale' compito».[3] Il putto di sinistra, invece, appare tutto assorto nel sollevare il fianco della stoffa: «solo dopo una lunga contemplazione lo spettatore nota che anche questo putto porta un attributo: la lunga tromba della fama. Stretto nella mano di sinistra, lo strumento è quasi interamente ricoperto dal panno, sebbene il contorno della sua estremità svasata sia individuabile sotto il drappo, quando lo si va cercando. L'uso di un attributo così ben nascosto è sorprendente, ma serve a sottolineare la concezione della tomba da parte di Duquesnoy come luogo di meditazione, una costruzione epigrammatica in cui poche forme sostengono una gamma di significati. Le allusioni velate, letteralmente e figurativamente, del monumento vengono scoperte dallo spettatore man mano, mentre esso interagisce con il monumento, completandone il significato. Solo quando il velo viene sollevato, e l'iscrizione letta, la fama di van den Eynde sarà assicurata».[3] Accoglienza e stimaGiovanni Battista Passeri e Giovanni Pietro Bellori elogiarono l'opera di Duqesnoy e sottolinearono la fama dei putti di van den Eynde. Essi godettero di grande fama nei secoli successivi, e furono modelli del putto infantile per gli artisti contemporanei.[4] Bellori scrisse:
e
Rubens, i cui putti possono essere considerati il "painterly pendant" di Duquesnoy,[4] elogiò grandemente i putti di van den Eynde. In una lettera indirizzara a Duquesnoy, in cui Rubens ringrazia il Fiammingo per i modelli dei putti dell'epitaffio di van den Eynde, questi scrive:
Anche Johann Joachim Winckelmann, generalmente un aspro critico del barocco,[4] commentò:
Molti artisti di spicco visitarono la tomba di van den Eynde a Roma per riprodurre il suo epitaffio nel disegno e nella pittura. Tra i disegni arrivati ai giorni nostri, vi sono quelli di Johan Sylvius, Jean-Robert Ango[7] e Augustin Pajou.[8] Note
Bibliografia
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