Gian Giacomo Gallarati Scotti
Don Gian Giacomo Gallarati Scotti, nobile dei principi di Molfetta, patrizio milanese, patrizio napoletano (Oreno, 2 settembre 1886 – Venezia, 4 gennaio 1983), è stato un diplomatico e politico italiano. Al momento della sua morte era l'ultimo superstite dei senatori del Regno d'Italia. BiografiaNato a Oreno (oggi frazione di Vimercate) e sesto di otto figli, era di famiglia nobile: suo padre Gian Carlo (Pisa, 17 febbraio 1854 - Milano, 15 maggio 1927) era principe di Molfetta e conte di Candia, mentre sua madre era Maria Luisa Melzi d'Eril, figlia di Giacomo dei duchi di Lodi e di Giuseppina Barbò dei conti di Casalmorano (Balerna, 21 gennaio 1856 - Milano, 7 febbraio 1937). Tommaso Gallarati Scotti fu suo fratello primogenito. CarrieraSi laureò in Giurisprudenza all'Università degli Studi di Genova. Entrato nel 1912 nella carriera diplomatica, prestò molti anni di servizio nelle colonie, diventando commissario del governo nel primo dopoguerra a Tobruk. Proprio nella prima parte della sua carriera coloniale perse un braccio, all'inizio degli anni venti, a seguito di un'infezione dovuta ad un colpo di arma da fuoco. Tornato in Italia, nel 1926 fu chiamato alla carica di podestà di Oreno (all'epoca ancora comune indipendente). Nel 1927 sposò Ida Mocenigo Soranzo (Venezia, 21 ottobre 1898 - Venezia, 23 dicembre 1969), ultima discendente di una famiglia dogale veneziana, da cui ebbe quattro figlie. Nel 1934 fu senatore del Regno e l'anno successivo podestà di Vimercate, dopo l'annessione di Oreno a questo comune. Mantenne questa carica fino a quando, nel giugno 1938, fu chiamato dal Governo di Roma a divenire podestà di Milano, nonostante non si fosse mai distinto per il suo attaccamento al regime fascista[1], e nonostante suo fratello maggiore Tommaso Gallarati Scotti, ambasciatore italiano a Madrid (1944-1946) e a Londra nel dopoguerra, fosse un noto antifascista. Dopo il 25 luglio 1943 e la caduta di Mussolini, il nuovo capo del Governo Pietro Badoglio, con il quale aveva già lavorato nelle colonie, lo sostituì il 14 agosto con un commissario prefettizio. Posto sotto processo per collaborazionismo col fascismo, fu dapprima condannato ma poi assolto in Cassazione.[2] Da quel momento, e soprattutto dalla nascita della Repubblica Italiana, Gian Giacomo si ritirò a vita privata, abbandonando completamente lo scenario politico. Nel 1983, poco prima della sua morte, fu insignito dall'ex Re Umberto II del Collare della SS.Annunziata, la massima onorificenza di Casa Savoia. Morì nella sua dimora veneziana il 4 gennaio 1983, a 97 anni, ultimo superstite dei senatori del Regno d'Italia. La tutela dell'orso brunoSin da ragazzo è attrastto dal padre Gian Carlo, abile cacciatore ma, soprattutto, esperto naturalista, che nella vita ha avuto occasione di esplorare sia in Europa sia in Africa, per motivi legati allo studio e alla caccia. Nel 1924, durante un permesso dalla missione diplomatica, organizza un soggiorno sulle Dolomiti per fare escursioni. Non è solo, fra i sentieri viene accompagnato da un esemplare di giovane leopardo proveniente dall'altopiano eritreo di Mària Neri. Un eccentrico fatto che narrerà, avanti negli anni, scrivendo: «assicuro che la bella e maculata bestiola, che balzava tra i massi di Pataseos e di Val Nembino, era inaspettata, ma non sempre gradita visione ai passanti![3]». Supportato dai legami instaurati con molti valligiani durante le numerose villeggiature a Madonna di Campiglio, Gian Giacomo si rende conto dello spopolamento dell'orso bruno dovuto alla caccia intensificata sia per fame sia per venderne la pelliccia, soprattutto, durante il primo conflitto mondiale. A seguito della perdita del braccio sinistro durante un conflitto a fuoco subito in Libia, deve interrompere la carriera diplomatica per trascorrere un periodo di convalescenza in Italia. Approfitta della situazione per affinare gli studi naturalistici, approfondendo soprattutto, la figura dell'orso bruno delle Alpi e i luoghi che abita. Si rende conto che la sopravvivenza dell'animale è indissolubilmente legata alla salvaguardia dell'ambiente in cui vive: l'orso [4]ha bisogno di grandi spazi dove poter essere libero di procurarsi il cibo e di riprodursi. Gian Giacomo, vedendo quanto l'equilibrio biologico sia compromesso, vuole intervenire e così, nel 1928 scrive un rapporto «inteso ad ottenere dal Governo Nazionale misure protettive nella zona Adamello-Brenta, istituendo un parco nazionale che potrà chiamarsi di Madonna di Campiglio».[5] Cataloga la documentazione in suo possesso ed elenca le persone che potrebbero prodigarsi per la causa. Stila una proposta di istituzione del parco e la invia al veneziano conte Alessandro Marcello, membro della sezione veneta della Società Botanica Italiana, per far sì che venga vagliata dall’assemblea e si possa sperare in un’eventuale adesione alla sua domanda presso il ministero dell’Economia nazionale. Il 25 giugno 1928 il conte Marcello ottiene l'approvazione dall’assemblea. Inoltre, trova l'appoggio di tre onorevoli, i senatori Cesare Nava, Giuseppe Castiglioni e Gilberto Borromeo[4]. Nava si spende affinché la domanda arrivi sulla scrivania di Alessandro Martelli, l’allora ministro dell’Economia nazionale e con lettera del 15 dicembre 1928, comunica a Gian Giacomo di aver «consegnato e illustrato a S.E. Martelli, ministro per l’Economia nazionale, la domanda relativa al Parco Nazionale di Madonna di Campiglio»[4]. La missiva continua informandolo che «il ministro accolse assai fervidamente la proposta e mi propose che l’avrebbe personalmente studiata»[4] ma, dopo questo promettente andamento, il progetto si interrompe. Per sua iniziativa, la legge sulla caccia, entrata in vigore il 1º gennaio 1940 (regio decreto 1016 del 5 giugno 1939), vietò per la prima volta la caccia all'orso bruno in tutta Italia, fatto questo che verosimilmente permise di evitarne l'estinzione. Da quando si ritirò a vita privata, si dedicò soprattutto ad iniziative volte alla salvaguardia dell'ambiente naturale, particolarmente degli orsi delle Alpi. Nel 1957 diede vita a un comitato per la tutela dell'orso bruno. Su questi argomenti produsse varie pubblicazioni, perlopiù a proprie spese, tra le quali L'orso bruno di Linneo (1958), La protezione dell'orso bruno in Italia (1960) e Gli ultimi orsi bruni delle Alpi (1962). Si dedicò alla tutela dell'orso sino alla fine: nel 1981, quando aveva ormai 95 anni, pubblicò un accorato appello per la tutela dell'orso bruno in Italia sulla neonata rivista Airone. OnorificenzeOnorificenze italiane— 12 gennaio 1933[6]
— 17 aprile 1930[6]
Onorificenze straniereOnorificenze di dinastie non regnantiAlbero genealogico
Note
Bibliografia
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