Congiura del Tiepolo
Nella storia veneziana la congiura del Tiepolo è una fallita congiura ordita nel 1310 contro il governo della Repubblica di Venezia e guidata dai patrizi Marco Querini, Bajamonte Tiepolo e Badoero Badoer. StoriaAntefattoLa situazione politicaTra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento, si combatteva a Venezia una lotta tra le famiglie esponenti di quel partito "popolare" che si batteva per il mantenimento del vigente sistema comunale e la fazione aristocratica, che tentava invece di prendere per sé il potere. Si trattava essenzialmente d'una contrapposizione tra le famiglie patrizie composte dalle dodici casate apostoliche e dalle antiche famiglie ducali, e i cittadini "arricchiti" che, dopo aver sostenuto i nobili nella presa del potere contro il vecchio sistema monarchico-ducale, si vedevano ora costrette a cederlo nuovamente ai vecchi "proprietari". In questo quadro, i potenti casati dei Querini, dei Tiepolo e dei Badoer, si erano trovati ad appoggiare, contro gli interessi del resto della classe patrizia, le istanze delle famiglie medio-piccole, divenute loro bacino di potere e clientela. Nel 1289 era sfumata di un soffio l'elezione a Doge del popolare Giacomo Tiepolo figlio di Lorenzo, già acclamato dalla popolazione, in favore di Pietro Gradenigo, capo del partito aristocratico. La guerra di Ferrara, fortemente voluta dagli aristocratici per il possesso della città estense ed il controllo sul Po e sulle saline di Comacchio, costando a Venezia lo scontro con il Pontefice, la scomunica ed un alto prezzo di vite umane, sembrava però mettere in discussione il neonato predominio aristocratico. Gli scontri del 1309Al termine dalla guerra, il Doge e la sua fazione addossarono le responsabilità della sconfitta ad uno dei principali esponenti del partito avversario: Marco Querini venne accusato di viltà per aver permesso al nemico d'impossessarsi, adombrando addirittura l'ombra del dolo, della fortezza chiave di Castel Tedaldo, causando la perdita di numerosi uomini e, in definitiva, della stessa guerra. A questo si aggiungevano altri attacchi personali ai membri della fazione: da una parte, il fratello di Marco Querini, Pietro Pizzagallo venne condannato dall'avogador Marco Dandolo per aver lasciato impunita, durante la sua bailìa a Negroponte, un'aggressione subita dal figlio Nicolò, dall'altra il genero, Bajamonte Tiepolo, veniva multato a luglio per indebita appropriazione di beni pubblici durante la sua reggenza delle colonie di Corone e Modone. Nel mese di settembre, nell'occasione dell'elezione a Consigliere Ducale di Doimo, conte di Veglia, i Querini tentarono di contrattaccare accusando il Doge e il suo partito di prevaricare la legge con una nomina irregolare: ne nacque un acceso scontro politico, che, nonostante degenerasse in aperta rissa, non impedì al Maggior Consiglio di approvare infine la nomina di Doimo. Chiusi in un angolo, i Querini e i loro alleati iniziarono a meditare l'azione di forza. Le condizioni per una congiura c'erano tutte: le motivazioni politiche, quelle private, sostenitori agguerriti e umiliati, la causa nobile della Libertà con cui far leva sulla popolazione. Rimaneva da superare solo, l'opposizione del vecchio Jacopo Querini, capo della famiglia, ma la sua nomina a bailo presso la corte bizantina e la conseguente partenza per Costantinopoli, rimossero anche l'ultimo ostacolo. La congiuraRiuniti gli alleati per decidere le linee d'azione, Marco Querini fece richiamare il genero Bajamonte dal volontario esilio in cui si era ritirato: la sua personalità e il forte ascendente popolare, che gli valevano il soprannome di Gran Cavaliere, oltre all'appartenenza ad una famiglia che aveva dato ben due dogi alla Repubblica nell'ultimo secolo, erano fondamentali per il successo dell'impresa. L'azione venne fissata per l'alba di domenica 14 giugno 1310. Il pianoSecondo il piano, sarebbero entrate in azione tre colonne. Il fallimento dell'azioneLa scoperta della congiuraLa sorpresa venne annullata dalla delazione di uno dei congiurati, Marco Donà, uomo della prima ora, poi ritiratosi, che mise sull'avviso il vecchio Pietro Gradenigo. Il Doge non perse tempo: rafforzò la guardia al Palazzo, mandò a chiamare precipitosamente i podestà di Murano, Torcello e Chioggia, perché lo raggiungessero coi loro rinforzi, e convocò le principali magistrature, il Minor Consiglio, gli Avogadori, i capi della Quarantia. Allertò quindi anche i suoi principali alleati, perché accorressero con i loro servi armati. Nella notte, Guido Canal, Marco Michiel e Matteo Manolesso vennero inviati presso Pietro Querini per convincere i congiurati a desistere dai loro disegni. La missione fallì e i messaggeri ducali furono quasi passati a fil di spada[2]. L'assalto alla piazzaLa vecia del morter e il Ponte dei Dai
Legato all'episodio della congiura del Tiepolo è l'episodio della vecia del morter (la "vecchia del mortaio"). L'anziana donna, il cui nome sarebbe stato Giustina o Lucia Rossi, che secondo la tradizione abitava nelle Mercerie, a pochi metri dall'attuale Torre dell'Orologio, sarebbe stata inconsapevole protagonista della vittoria sui rivoltosi quando, lasciando cadere un pesante mortaio di pietra dalla finestra della sua casa, avrebbe colpito in testa proprio il vessillifero di Bajamonte Tiepolo, uccidendolo sul colpo: la caduta della bandiera avrebbe provocato la rotta dei rivoltosi e la vittoria della Repubblica. L'evento, forse in parte leggendario, venne comunque propagandato dal governo come segno di fedeltà popolare e, per decreto, alla donna e ai suoi discendenti venne concesso in perpetuo il diritto di esporre il gonfalone di San Marco nel giorno di San Vio e nelle altre solennità e il blocco a 15 ducati dell'affitto pagato per la casa ai Procuratori di San Marco. Ancor oggi una lapide commemorativa è visibile nei pressi della finestra che sarebbe stata della Rossi. Mentre tutto questo accadeva all'insaputa dei congiurati, questi si riunirono come convenuto, all'alba del giorno prefissato, nel palazzo dei Querini a Rialto. Nonostante infuriasse su Venezia la tempesta, che rendeva difficoltosi gli spostamenti e metteva a rischio la stessa attuazione del piano, Bajamonte ed il suocero Marco presero il comando delle due colonne e puntarono decisi sull'obbiettivo, al grido di Libertà e morte al doge Gradenigo. Le strade fangose ed il brutto tempo rendevano difficile il coordinamento tra le due colonne, rendendo al contempo arduo l'arrivo dei rinforzi dalla Terraferma. Giunta per prima in vista della piazza la colonna del Querini si trovò davanti all'improvviso schierati in buon ordine il Doge e gli uomini di Marco Giustinian, di Antonino Dandolo e di suo fratello. Vistisi scoperti e presi di sorpresa, gli uomini del Querini sbandarono, dandosi precipitosamente alla fuga, inseguiti da vicino dal nemico, lasciando sul terreno lo stesso Marco Querini e suo figlio Benedetto. Poco distante il Tiepolo, giunto nel campo San Zulian, forse rendendosi conto che qualcosa non andava, divise le sue forze in due tronconi: con uno si lanciò direttamente verso la piazza lungo le Mercerie, mentre l'altro aggirò l'accesso più a nord, penetrando nella piazzetta nei pressi della chiesa di San Basso. Gli armati del Doge stavano nella piazza ad aspettarli. Ne nacque un aspro combattimento, mentre le grida e il rumore di battaglia facevano accorrere da più parti semplici cittadini e popolani. Proprio quando il combattimento si faceva più aspro la caduta del vessillifero del Tiepolo, che recava lo stendardo con la scritta LIBERTAS, forse abbattuto da un pesante mortaio lanciato dalla finestra di casa da una donna, provocò la ritirata generale dei rivoltosi. Mentre i superstiti della colonna Querini venivano raggiunti e fatti prigionieri presso il campo San Luca dalle truppe armate della Scuola Grande della Carità e della Scuola dei Pittori, il Tiepolo e il grosso dei suoi uomini riuscirono a ripiegare in buon ordine al di là del ponte di Rialto, che venne dato alle fiamme per consentire ai ribelli di asserragliarsi nella zona del mercato, dove si trovavano i palazzi dei Querini. Nella zona vennero incendiati anche gli edifici pubblici: il palazzo del magistrato dei Cinque alla Pace e l'ufficio del frumento. Così stando la situazione, con un intero settore della città in mano agli insorti, da una parte, e l'imminente arrivo della colonna di Padovani al comando del Badoer, dall'altra, il pericolo per il governo era ancora grave. Il doge Gradenigo decise allora di risolvere per primo il problema dei Badoer, inviando contro di lui il podestà clodiense Ugolino Giustinian, che lo intercettò, facendolo prigioniero assieme a tutti i suoi. Il Gradenigo si avvalse, come ambasciatori, prima di alcuni mercanti milanesi, poi di Giovanni Soranzo e Matteo Manolesso, ma senza risultato: il Tiepolo rifiutava ogni proposta. Infine l'intervento del consigliere ducale Filippo Belegno riuscì a convincere in extremis Bajamonte Tiepolo a deporre le armi. La repressione immediataIl 17 giugno, tre giorni dopo l'inizio degli scontri, il Maggior Consiglio confermò con 361 voti favorevoli, 6 contrari e 10 astenuti, il patto stipulato tra il Doge e il Tiepolo, consentendo a questi e ai più stretti alleati di lasciare Venezia e il Dogado, esiliati per quattro anni in Schiavonia, con l'obbligo di non avvicinarsi a Zara e di non recarsi in alcun paese nemico della Repubblica. Agli altri congiurati, che figurassero tra gli eleggibili o gli eletti al Maggior Consiglio, venne comandato il confino per quattro anni in località scelte dal Doge, con l'obbligo di non avvicinarsi a Padova, Vicenza e Treviso o ad altro territorio nemico di Venezia. I restanti rivoltosi catturati a Rialto furono amnistiati, a condizione che facessero atto di sottomissione al Doge e alla Repubblica. Il Badoer, invece, che era stato catturato prima dell'accordo di resa, venne imprigionato, torturato ed infine condotto il 18 giugno a processo davanti al Supremo Tribunale della Quarantia: il 22 giugno venne emanata la sentenza di morte, eseguita il giorno stesso per decapitazione. Il 2 luglio il Maggior Consiglio impose il bando, da applicarsi entro gli otto giorni successivi, anche per le mogli dei condannati e degli esiliati, ordinando poi la redistribuzione degli incarichi pubblici appartenuti ai congiurati e la demolizione della casa del Tiepolo in parrocchia di Sant'Agostino e della Ca' Granda dei Querini. Poi si dichiarò per decreto come festivo il giorno di San Vio (15 giugno), per grazia ricevuta della salvezza dello Stato. ConseguenzePer contrastare il costituirsi di nuove congiure contro l'ordine aristocratico della Repubblica, il Maggior Consiglio creò, con parte del 10 luglio 1310 un nuovo organismo: il Consiglio dei Dieci, che da tribunale speciale straordinario venne rinnovato di anno in anno sino a divenire, nel giro di venticinque anni, una stabile e quasi onnipotente magistratura dello Stato. Venne poi costituita una milizia cittadina affidata al comando dei Capisestiere pronta ad accorrere in qualunque momento al richiamo delle campane di San Marco sciolte a stormo. La congiura nella letteraturaLa storia della congiura di Bajamonte Tiepolo ispirò allo scrittore spagnolo Francisco Martinez de la Rosa la stesura di un dramma dedicato a questa vicenda: La congiura di Venezia (1830), considerato «il primo trionfo romantico sulle scene madrilene»[6]. Note
Bibliografia
Voci correlate |
Portal di Ensiklopedia Dunia