Azione di reintegrazioneL'azione di reintegrazione, o spoglio, nell'ordinamento giuridico italiano, rientra nella categoria delle azioni a difesa del possesso, ad essa è legittimato chiunque sia stato con violenza, anche non fisica, oppure occultatamente spogliato del possesso ed è volta ad ottenere la reintegrazione nel possesso stesso. È regolata dall'articolo 1168 del codice civile italiano. CaratteristicheLegittimato all'azione non è solamente il possessore ma anche il detentore qualificato, che non detiene, cioè, per ragioni di servizio o di ospitalità o di amicizia. Stante che l'intenzione (o animus spoliandi) non si può accertare, essendo un elemento psichico interno: si dice che questo elemento sussiste oggettivamente, per il fatto che la privazione del possesso è stata arbitraria. L'azione deve essere iniziata entro il termine di decadenza di un anno dallo spoglio, se violento, ovvero dal giorno della scoperta di esso, se clandestino. L'azione di reintegrazione è il superamento con un istituto democratico di quanto previsto durante il regime fascista dalla Carta del Lavoro, e prima ancora dalla Carta del Carnaro: che si limitavano ad una previsione di <<il risarcimento dei danni in caso di errore giudiziario o di abuso di potere>>. Nel diritto del lavoroLa legge italiana prevede che il giudice possa ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro dei dipendenti licenziati illegittimamente. L'accertamento giudiziale della illegittimità del licenziamento ed il conseguente ordine di reintegrazione ripristinano integralmente tutte le condizioni preesistenti al licenziamento. Solo se tale adempimento si renda impossibile, per cause non imputabili al datore di lavoro, possono essere adottate quelle modifiche che assicurino comunque il ripristino del rapporto illegittimamente risolto (es. esercizio dello "ius variandi")[1]. Il licenziamento è illegittimo e la reintegrazione possibile se è discriminatorio, nelle aziende di qualsiasi dimensione; se è privo di giusta causa o giustificato motivo, oggettivo o soggettivo, nelle aziende che hanno più di 15 dipendenti. Il lavoratore licenziato si presenta in azienda con l'ordine di reintegrazione del giudice; in caso di inadempienza del datore (non è lasciato entrare all'ingresso, la postazione di lavoro non è più presente o è occupata da altra risorsa), il lavoratore non può chiedere al giudice l'esecuzione forzata in azienda, in quanto é pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza che il reintegro non è coercibile. Resta comunque dovuta la retribuzione prevista al prestatore di lavoro. In una fase iniziale, la reintegrazione consisteva nell'effettivo rientro del licenziato nella precedente postazione di lavoro (catena di montaggio, ufficio, macchina utensile, ecc.) con relative attrezzature (es. computer con software di lavoro) e mansioni, oltre alla retribuzione complessiva globale di fatto. La reintegrazione significava il concreto ripristino dei diritti e obblighi del lavoratore, in termini di continuità operativa, occupazionale e contrattuale. Principi e orientamenti giurisprudenzialiLa possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro trova fondamento nella Carta Sociale Europea: «Per assicurare l’effettivo esercizio del diritto ad una tutela in caso di licenziamento, le Parti s’impegnano a riconoscere: La possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro, anche attraverso esecuzione forzata, deriva da varie norme di prassi consolidata:
Da più parti, si solleva un'obiezione di illegittimità o almeno di incoercibilità delle reintegrazioni nel posto di lavoro, non essendo il posto e la sede di lavoro qualificabili come un possesso ovvero un diritto di proprietà, sebbene derivanti dagli obblighi di un contratto individuale di lavoro, e attribuendo il codice civile il potere direttivo e organizzativo dell'azienda in via esclusiva al datore-committente. È possibile una distinzione fra coercibilità a priori e coercibilità a fortiori, per le obbligazioni di fare. Se è concretamente difficile l'esecuzione forzata di un obbligo di fare che ha come condizione necessaria la partecipazione attiva della parte soccombente, nulla osta all'applicazione di sanzioni, anche penali pecuniarie e detentive, successive ad una condotta in violazione di un ordine giudiziale. Il valore deterrente della pena, unito alla revoca delle sanzioni per chi "si mette in regola", rappresentano una forma di coercizione a posteriori Oltre a una questione pur sempre attuale di autorevolezza degli organi che esercitano il potere giudiziario, vale -come rilevato dalla Cassazione- la necessità primaria di garantire al cittadino l'effettività della tutela giurisdizionale. È tuttavia possibile fra le parti accordarsi diversamente con delle clausole compromissorie in un contratto di lavoro individuale certificato. Onere della provaCon sentenza 10.01.2006 n° 141 della Cassazione Sezioni Unite, è stato stabilito che spetta al datore prova la sussistenza del requisito dimensionale dei 15 dipendenti, e più in generale di una sopravvenuta impossibilità di reintegrazione del lavoratore licenziato, per la non-applicazione dell'articolo 18. Nel diritto ambientaleIn materia di danno ambientale, il D. Lgs. n. 152/2006 afferma che "qualsiasi azione o omissione commessa in violazione di legge, di regolamento o di provvedimento amministrativo che provochi un danno all'ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte obbliga il suo autore al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento nei confronti dello Stato".[2] Il "ripristino della precedente situazione" è identificato dalla lettera della legge come la soluzione elettiva rispetto alla quale la pratica risarcitoria della monetizzazione dei diritti soggettivi assume carattere residuale e di extrema ratio. La parola "mancanza", per quanto ambigua, non potrebbe essere infatti riferita alla libera determinazione del singolo di disattendere e ignorare un ordine della pubblica autorità, commettendo un fatto di rilevanza penale. Se la parola "mancanza" non allude alla libertà dei singolo a proprio libro piacimento, la norma non esemplifica e nemmeno fissa in linea teorica di principio una distinzione fra fattori e contesti di tipo coercibile e di tipo non coercibile, eventualmente delegando alla giurisprudenza successiva il compito di tipizzarli. Diversamente, la legge lascerebbe al singolo delinquente due possibilità di scelta ampiamente discrezionali e tra loro diverse: porre fine all'esercizio dei diritti di proprietà e/o degli altri diritti reali di godimento che insistevano sul bene danneggiato, ovvero prorogare indefinitamente lo status quo ante pagando un indennizzo economico al proprietario e agli eventuali usufruttuari danneggiati. Inoltre, un territorio potrebbe essere danneggiato ad un livello di inquinamento e contaminazione dell'aria, dei terreni, delle falde acquifere e dei corsi d'acqua e delle specie animali e umane che li popolano, tali da ridurre la qualità e la durata della vita media, le condizioni di fertilità maschile e femminile, le possibilità di riproduzione e di sopravvivenza stessa dell'etnia che vive al suo interno. Tutto ciò, permetterebbe una lenta e inesorabile deportazione di massa di una minoranza etnica, senza alcuna forma di coercizione fisica per obbligarla ad allontanarsi dalla zona storica di residenza. La concreta e presunta incoercibilità della reintegrazione nel posto di lavoro a favore dei dipendenti licenziati ingiustamente è stato uno degli elementi fondamentali sollevati nell'ambito della dottrina giuslavoristica per cancellare la parola "reintegrazione" dai testi legislativi, affermando l'indennizzo economico come principio generale della risoluzione unilaterale dei contratti di lavoro. La stessa previsione dell'opzione economica risarcitorio nei soli confronti dello Stato significa implicitamente che tale eventualità non è nemmeno contemplata per tutte le altre possibili tipologie di parte lesa, quanto meno per le persone o per la natura delle altre loro possibili forme di vita associata. In FranciaNell'ordinamento francese, la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro è prevista solamente in casi particolari e selezionati e non come regola generale conseguente a un licenziamento illegittimo. Il codice del lavoro francese prevede tale tutela a favore delle donne in stato interessante, dei lavoratori protetti (definiti come delegati sindacali, rappresentanti delle associazioni datoriali, membri degli organi elettivi dell'azienda come il comitato di gestione, il consiglio di fabbrica o il comitato per l'igiene, la salute e sicurezza nel luogo di lavoro) e dei dipendenti affetti da infortuni sul lavoro o da malattie professionali invalidanti. Nel caso delle donne, il divieto di licenziamento copre anche i permessi di maternità, relativi al parto o all'adozione, a prescindere dal loro effettivo godimento. Ai fini dell'annullamento del licenziamento è necessario e sufficiente produrre un certificato medico rilasciato dalla struttura sanitaria ovvero l'accoglimento di un bambino in stato di adottabilità.[3] I lavoratori protetti sono ulteriormente tutelati da un rito specifico e speciale che subordina l'ordinaria azione in giudizio al preventivo rilascio di un'autorizzazione al licenziamento da parte dell'Ispettorato del Lavoro statale, atto qualificato come di natura amministrativa.[4] Tali licenziamenti sono annullati non solo per motivi di merito, ma per un qualsiasi vizio procedurale determinato dall'inosservanza dei passaggi previsti dal rito. Restano esclusi dal perimetro di applicazione:
Nel caso di infortuni e malattie professionali, il licenziamento è legittimo e ammissibile solamente nel casoin cui il datore dimostri che lo stato di salute psico-fisica del lavoratore sia stato causato da una causa di forza maggiore, da una situazione extralavorativa o da un "grave errore"[5], assimilabile a una condotta negligente, omissiva o imprudente del lavoratore che sia caratterizzata da dolo o colpa grave. La reintegrazione consiste in via prioritaria nel ripristino della situazione lavorativa antecedente all'intimazione del licenziamento. Altrimenti, il lavoratore ingiustamente licenziamento ha il diritto ad essere inserito in una posizione lavorativa equivalente in termini di remunerazione economica, qualifica e prospettive di crescita professionale.[6][7] Tuttavia, la giurisprudenza ammette casi eccezionali di impossibilità del reintegro.[8]. Per molti anni, i dipendenti messi a disposizione di una controllata di una società francese, che svolgevano la loro prestazione lavorativa all'estero (per trasferimento, distacco o per un nuovo rapporto di lavoro con la controllata), conservavano il diritto nei confronti della casa madre al rimpatrio e ad ottenere un nuovo lavoro compatibile con l'importanza delle funzioni precedentemente assunte al suo interno.[9] Le sentenze della Corte di Cassazione del 30 marzo[10] e del 7 dicembre 2011[11] hanno notevolmente modificato l'obbligazione datoriale di riclassificare il contratto di lavoro, reintepretando il termine "funzione" presente nel codice del Lavoro con la nuova nozione di "competenze" acquisite dal lavoratore, decisamente più ampia e discrezionale, nonché priva di limitazioni temporali e geografiche.[12] Non sono in generale previste forme di esecuzione coercitiva dell'ordine giudiziale di reintegrazione. Se il datore ignora un provvedimento del tribunale, la sua condotta può essere complessivamente assimilata dal giudice ad un licenziamento senza causa reale e seria (cause réelle et sérieuse), fatto che lo espone al pagamento di un'indennità risarcitoria particolarmente onerosa. Note
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