I trasferimenti nel dopoguerra erano parte di una politica ufficiale sovietica, che condizionò milioni di cittadini polacchi, spostati a tappe dalle aree annesse all’Unione Sovietica. In seguito alle richieste sovietiche avanzate nella Conferenza di Teheran del 1943, la macroregione Kresy venne formalmente incorporata nelle repubbliche sovietiche di Ucraina, Bielorussia e Lituania, come accordato nella Conferenza di Potsdam del 1945, dove il governo polacco in esilio non venne nemmeno invitato.[2]
Il processo è citato in modo vario come espulsione,[1]deportazione,[5][6]depatriazione,[7][8][9] o rimpatrio,[10] in base al contesto e alla fonte. Il termine ‘’rimpatrio’’ è usato ufficialmente da fonti comuniste sia sovietiche che polacche ed è una deliberata manipolazione[11][12], dal momento che le persone deportate lasciarono il loro luogo natale e non vi stavano facendo ritorno.[7] Talvolta vi si riferisce anche con ‘’primo rimpatrio’’, in contrasto con il secondo del 1955-59. In un contesto più ampio viene a volte descritto come il culmine di un processo di de-polonizzazione delle aree dopo la guerra.[13] Il processo venne pianificato e portato avanti dai regimi comunisti di Unione Sovietica e Polonia post-bellica. Molti dei trasferiti vennero insediati negli ex territori orientali della Germania dopo il 1945, i cosiddetti Territori recuperati della Repubblica Popolare di Polonia.
«Takie postrzeganie „zagranicznych Polaków" potwierdza chociażby tzw. pierwsza kampania powrotowa (zwana niesłusznie repatriacją), którą komuniści zainicjowali niemal od razu po zakończeniu II wojny światowej.»
^(PL) Jan Czerniakiewicz, Stalinowska depolonizacja Kresów Wschodnich II Rzeczpospolitej (Stalinist de-Polonization of the Eastern Borderlands of the 2nd Republic), Varsavia, Centre for Eastern Studies, Warsaw University, 1992, p. 20.