Scuola di BarbianaLa scuola di Barbiana è un'esperienza educativa sperimentale avviata e animata da don Lorenzo Milani dal 1954 al 1967. L'innovativa scuola provocò un ampio dibattito sulle innovazioni da apportare in materia di pedagogia.[1] Dapprincipio sconcertò - e poi stimolò le reazioni - gli addetti ai lavori, raggiungendo ampia fama con la pubblicazione della celeberrima Lettera a una professoressa, una critica polemica alla scuola dell'obbligo dell'epoca, redatta collettivamente dagli scolari più grandi di Barbiana sotto la supervisione - ma non l'intervento diretto, come egli ribadirà a più riprese - di Don Milani. La storiaDon Milani fu inviato quale priore di Barbiana (frazione di Vicchio), un piccolo borgo sperduto sui monti della diocesi di Firenze, a causa di alcuni dissapori con i fedeli della sua precedente parrocchia e con la Curia Fiorentina. Qui incominciò un'esperienza educativa unica e rivolta ai giovani di quella comunità che, anche per ragioni geografiche ed economiche, erano fortemente svantaggiati rispetto ai coetanei di città. La scuola sollevò immediatamente molte critiche, gli attacchi ad essa furono tanti, sia dal mondo della chiesa sia da quello laico. Le risposte a queste critiche vennero date con “Lettera a una professoressa”, libro per tutte le età scritto dagli allievi della scuola insieme a don Milani (e infatti come autore del libro è indicato "Scuola di Barbiana"), che spiegava i principi della scuola e al tempo stesso costituiva un atto d'accusa nei confronti della scuola tradizionale, definita "un ospedale che cura i sani e respinge i malati", in quanto non si impegnava a recuperare e aiutare i ragazzi in difficoltà, mentre valorizzava quelli che già avevano un retroterra familiare positivo, esemplificando questo genere di allievi con il personaggio di "Pierino del dottore" (cioè Pierino, figlio del dottore, che sa già leggere quando arriva alle elementari). Le caratteristicheL'innovazione dell'esperienza di Barbiana parte da alcuni presupposti unici e originali e da un principio sintetizzato nel motto in inglese della scuola "I care", in italiano "mi importa".[2] Da questo motto parte il principio per cui la scuola è fatta nelle ore più impensate dopo i lavori nei campi, impegnando i ragazzi praticamente tutto il giorno e sette giorni la settimana. È una scuola aperta, dove il programma è condiviso dagli allievi, le idee proposte dal maestro sono spesso rivoluzionarie e per l'epoca ritenute pericolose (a titolo di esempio riportiamo una frase di una lettera scritta dai ragazzi di Barbiana e Don Milani riferita al socialismo: “il più alto tentativo dell'umanità di dare, anche su questa terra, giustizia e eguaglianza ai poveri”). TestiSono i giovani di Barbiana stessi che definiscono in sei punti la scuola nel 1963, quattro anni prima della morte di don Milani:
«… Barbiana non è nemmeno un villaggio, è una chiesa e le case sono sparse tra i boschi e i campi… In tutto ci sono rimaste 39 anime… In molte case e anche qui a scuola manca la luce elettrica e l’acqua. La strada non c’era. L’abbiamo adattata un po’ noi perché ci passi una macchina.»
«La nostra è una scuola privata… D’inverno stiamo un po’ stretti, ma da aprile ad ottobre facciamo scuola all’aperto e allora il posto non ci manca… Soltanto nove hanno la famiglia nella parrocchia di Barbiana. Altri cinque vivono ospiti di famiglie di qui perché le loro case sono troppo lontane… Qualcuno viene da molto lontano, per esempio Luciano cammina nel bosco quasi due ore per venire e altrettanto per tornare. Il più piccolo di noi ha 11 anni il più grande 18… l’orario è dalle otto del mattino alle sette e mezzo di sera… Non facciamo mai ricreazione e mai nessun gioco… i giorni di scuola sono 365 all’anno, 366 negli anni bisestili… abbiamo ventitré maestri, escluso i sette più piccoli, tutti gli altri insegnano a quelli minori di loro…»
«Prima di venirci né noi né i nostri genitori sapevamo cosa fosse la scuola di Barbiana. Quel che pensavamo noi non siamo venuti tutti per lo stesso motivo. Per noi barbianesi la cosa era semplice: La mattina andavamo alle elementari e la sera ci toccava andare nei campi. Invidiavamo i nostri fratelli più grandi che passavano la giornata a scuola dispensati da quasi tutti i lavori. Noi sempre soli, loro sempre in compagnia. A noi ragazzi ci piace fare quel che fanno gli altri. Se tutti sono a giocare, giocare, qui dove tutti sono a studiare, studiare. Per quelli delle altre parrocchie i motivi sono stati diversi: Cinque siamo venuti controvoglia (Arnaldo addirittura per castigo). All'estremo opposto due abbiamo dovuto convincere i nostri genitori che non volevano mandarci (eravamo rimasti disgustati dalle nostre scuole). La maggioranza invece siamo venuti d'accordo coi genitori. Cinque attratti da materie scolastiche insignificanti: lo sci o il nuoto oppure solo per imitare un amico che ci veniva. Gli altri otto perché eravamo davanti a una scelta obbligata: o scuola o lavoro. Abbiamo scelto la scuola per lavorare meno. Comunque nessuno aveva fatto il calcolo di prendere un diploma per guadagnare domani più soldi o fare meno fatica. Un pensiero simile non ci veniva spontaneo. Se in qualcuno c'era, era per influenza dei genitori…»
«A poco a poco abbiamo scoperto che questa è una scuola particolare: non c'è né voti, né pagelle, né rischio di bocciare o di ripetere. Con le molte ore e i molti giorni di scuola che facciamo, gli esami ci restano piuttosto facili, per cui possiamo permetterci di passare quasi tutto l'anno senza pensarci. Però non li trascuriamo del tutto perché vogliamo accontentare i nostri genitori con quel pezzo di carta che stimano tanto, altrimenti non ci manderebbero più a scuola. Comunque ci avanza una tale abbondanza di ore che possiamo utilizzarle per approfondire le materie del programma o per studiarne di nuove più appassionanti. Questa scuola dunque, senza paure, più profonda e più ricca, dopo pochi giorni ha appassionato ognuno di noi venirci. Non solo: dopo pochi mesi ognuno di noi si è affezionato anche al sapere in sé… Prima l'italiano perché sennò non si riesce a imparar nemmeno le lingue straniere. Poi più lingue possibile, perché al mondo non ci siamo soltanto noi. Vorremmo che tutti i poveri del mondo studiassero lingue per potersi intendere e organizzare fra loro. Così non ci sarebbero più oppressori, né patrie, né guerre.»
«… Nostra debolezza. Per es. uno dei più grandi, già bravissimo in matematica, passava le nottate a studiarsene dell'altra. Un altro, dopo sette anni di scuola qui, s'è voluto iscrivere a elettrotecnica. Alcuni di noi ogni tanto son capaci di trascurare una discussione per mettersi a contemplare un motorino come ragazzi di città. E se oltre al motorino avessimo a disposizione anche cose più stupide (come il televisore o un pallone) non possiamo garantirvi che qualcuno non avrebbe la debolezza di perderci qualche mezz'ora...»
«A nostra difesa però c'è che ognuno di noi è libero di lasciare la scuola in qualsiasi momento, andare a lavorare e spendere, come usa nel mondo. Se non lo facciamo non crediate che sia per pressione dei genitori. Tutt'altro! Specialmente quelli che abbiamo già preso la licenza siamo continuamente in contrasto con la famiglia che ci spingerebbe al lavoro e a far carriera. Se diciamo in casa che vogliamo dedicare la nostra vita al servizio del prossimo, arricciano il naso, anche se magari dicono di essere comunisti. La colpa non è loro, ma del mondo borghese in cui sono immersi anche i poveri. Quel mondo preme su di loro come loro premono su di noi. Ma noi siamo difesi da questa scuola che abbiamo avuto, mentre loro poveretti non hanno avuto né questa né altra scuola.» Note
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