Riccardo Fedel«"Libero" venne ucciso in segreto, dopo che già aveva accettato la rimozione ed era pronto ad andare a combattere altrove. La sua scomparsa ha favorito per decenni un racconto della Resistenza romagnola in cui, a partire dai fecondi rapporti con gli ufficiali britannici, si sono di fatto cancellati i primi mesi della sua attività ed esistenza.» Riccardo Fedel (Gorizia, 23 agosto 1906 – Romagna, 12 giugno 1944 – data presunta) è stato un partigiano italiano, noto col nome di battaglia di Libero Riccardi (Comandante Libero), fondatore della Repubblica partigiana del Corniolo, la prima esperienza di Repubblica partigiana nell'Italia del nord. Fu confinato politico, antifascista, sottufficiale del Regio Esercito e, dall'8 settembre 1943, partigiano. Venne sorvegliato ininterrottamente come "comunista pericoloso" per vent'anni, dal 1924 al 1943, anno nel quale, dall'inizio di dicembre, divenne comandante della Brigata Garibaldi Romagnola, alla cui guida rimase sino all'aprile del 1944. Nel febbraio dello stesso anno (o forse già sul finire del 1943), fondò la repubblica partigiana del Dipartimento del Corniolo. Fu segretamente condannato a morte e fucilato in Romagna nella tarda primavera del 1944 da altri partigiani in circostanze e per motivazioni mai del tutto chiarite. Il suo corpo non fu mai ritrovato. Biografia1906-1919: InfanziaRiccardo Giovanni Battista Fedel nacque a Gorizia (in terre all'epoca austriache) il 23 agosto 1906[1] da una famiglia di origini alto-borghesi. La madre era Augusta Bedolo, figlia di un patriota veneziano, Giovanni Battista Bedolo, e di Clorinda Bousquet, figlia di armatori italo-francesi. Il fratello della madre Augusta, Carlo Bedolo, si laureò in ingegneria mineraria ed emigrò in Sud America (con alterne fortune). Augusta, paraparetica, a causa probabilmente di una caduta da cavallo in età infantile, sposò Biagio Fedel, istriano, commerciante di vino, dal quale ebbe due figli: Riccardo e, nel 1908, Anna. Nel 1912, Biagio cercò di raggiungere il cognato Carlo in Sud America, ma morì nel viaggio verso Buenos Aires. Riccardo rimase quindi orfano di padre a 6 anni[2] e le condizioni economiche della sua famiglia peggiorarono progressivamente. Nel 1913, la famiglia di Riccardo Fedel, composta ora dalla nonna materna, Clorinda Bousquet, dalla madre Augusta e dalla sorella minore Anna (di 4 anni), vendette tutte le proprietà in Istria e si trasferì da Gorizia a Milano. Nel 1915, all'entrata dell'Italia in Guerra contro l'Austria, i Fedel ottennero lo status di rifugiati, essendo cittadini di etnia italiana dell'Impero austro-ungarico, e si trattennero a Milano fino al 1920. 1920-1926: AdolescenzaNel frattempo Riccardo, dopo aver conseguito la licenza elementare a Milano, frequentò l'istituto tecnico in un collegio maschile di Tortona. Nel gennaio del 1920, probabilmente avendo ormai esaurito le residue sostanze patrimoniali, i Fedel si trasferirono a Mestre (ai Quattro Cantoni), presso la villa del Conte Gustavo Soranzo, prozio acquisito di Riccardo, in quanto marito della sorella della nonna Bousquet. Sino al 1922 Riccardo frequentò Mestre solo durante le vacanze scolastiche. Fu in uno di questi periodi di vacanza, alla fine del 1920, che Riccardo, ancora tredicenne, si iscrisse ai Fasci italiani di combattimento di Mestre[3] cui rimase iscritto fino al 1923 quando, a 17 anni, cambiò idee politiche diventando comunista. Fu proprio nel 1923 che Riccardo si arruolò volontario nel Regio Esercito. Frequentò la scuola allievi sottufficiali a Modena e diventò Sergente. Fu congedato nel dicembre 1925 dopo un tentativo di azione antifascista (la sottrazione delle armi dalla caserma di Ravenna in cui prestava servizio) in conseguenza della quale incominciò a essere sorvegliato dalla Polizia come sovversivo e "pericoloso comunista" (con conseguente apertura di un fascicolo biografico al Casellario Politico Centrale). Prima condanna al confino politicoRimpatriato da Ravenna a Mestre con una scorta nel dicembre del ‘25, fu poi arrestato dalla polizia politica veneziana con l'accusa strumentale di porto abusivo d'arma per la quale fu condannato a 6 mesi di carcere. Nel frattempo, fu denunciato per complicità nell'attentato Zaniboni-Capello. Prosciolto dalle accuse più gravi, fu liberato ma sempre più strettamente sorvegliato. Venne poi arrestato nuovamente nell'ottobre del '26 e, appena approvate le leggi fascistissime, condannato a 3 anni di confino perché considerato elemento capace di organizzare attentati contro il Duce.[4] Subì il confino politico a Pantelleria dal 22 novembre 1926 al 16 marzo 1927 e poi a Ustica fino al 9 ottobre 1927, data nella quale venne liberato condizionalmente per le sue precarie condizioni di salute[5] e in cambio di un'estorta promessa di testimonianza a un processo contro Bordiga e altri confinati. 1927-1936: GiovinezzaLibertà condizionale dal primo confino politicoRimpatriato in Veneto, dove risiedeva la famiglia, in attesa che rendesse la sua testimonianza al processo di Palermo contro Bordiga, venne "assunto" come confidente della Milizia per la Sicurezza Nazionale (MVSN) e inviato in servizio a Gorizia. Dopo pochissimi giorni, però, dimostrò di non voler collaborare e, tempo una settimana, i responsabili della MVSN ne denunciarono la malafede e lo rinviarono a Mestre, "licenziandolo in tronco". Qui, Riccardo continuò però a spacciarsi per agente della Milizia, al fine – secondo un'interpretazione – di poter compiere indisturbato azioni contro il regime: riuscì infatti a far stampare e a distribuire a Pordenone dei manifesti sovversivi che inneggiavano allo sciopero degli operai tessili e al Partito Comunista. Questa azione scatenò la dura reazione fascista: considerato dal capo della Polizia Bocchini un agente del partito comunista che tentava di infiltrarsi nella MVSN, venne nuovamente condannato al confino come "comunista pericolosissimo" per altri 3 anni. La manovra di cui si è detto, per la sua dose di ambiguità, fu però all'origine dell'inserimento del suo nome nelle liste provvisorie dei collaboratori dell'OVRA. Liste dalle quali, su ricorso della madre, fu definitivamente cancellato con decisione pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 5 marzo 1948 con la motivazione secondo cui: "certo è che da tutti gli atti non risulta esser stato il Fedel assunto a confidente dell'OVRA"[6]. Nonostante questa pronuncia pienamente "assolutoria" della commissione per l'esame dei ricorsi dei confidenti dell'OVRA, alcuni autori hanno interpretato l'azione di Riccardo Fedel[7] non come quella di un comunista che tentava di infiltrarsi nella MVSN ma come quella di un informatore fascista che aveva violato il divieto di organizzare provocazioni. In ogni caso, per Riccardo Fedel, l'effetto fu una seconda condanna al confino politico. Alcuni polemisti hanno sottolineato come la cancellazione dalle liste dei collaboratori dell'OVRA potrebbe essere avvenuta perché l'OVRA nel 1928 non era ancora stata fondata, avendo Riccardo Fedel in effetti offerto la propria collaborazione alla Polizia Politica e/o alla MVSN. L'argomento è in realtà privo di fondamento dato che, come evidenzia Franzinelli nella sua fondamentale opera sull'OVRA, l'espressione "confidenti dell'OVRA" fu interpretata estensivamente dalle varie Commissioni di epurazione, per ricomprendere i confidenti del regime fascista[8]. Seconda condanna al confino politicoRiccardo fu inviato in provincia di Potenza, dove rimase (con alcune ‘pause’ carcerarie: 6 mesi a Potenza e 14 mesi ad Avellino per tentata fuga) dal 16 maggio 1928 sino al 1930, quando venne trasferito – come ulteriore misura punitiva – alle isole Tremiti, ove terminò di scontare il periodo di confino il 30 settembre 1931. Dal confino lucano, sposò, per procura, Anita Piovesan, figlia di un sindacalista anarchico di Mestre (autore dello Statuto del sindacato dei panificatori), che potrà così raggiungerlo e fargli compagnia per qualche mese, finché non rimase incinta e tornò a Venezia per partorire. Fu proprio per raggiungere la moglie dopo la nascita del primogenito Luciano che tentò la fuga dal confino e, catturato a Sala Consilina, fu condannato a oltre 14 mesi di carcere che scontò ad Avellino. Durante la sua detenzione, il figlio Luciano morì senza che lui riuscisse nemmeno a vederlo. Scarcerato, fu inviato alle Tremiti, per terminare la condanna al confino. Sorveglianza politicaTornato in Veneto, cominciò una vita da sorvegliato politico tra Milano e Mestre, con un breve periodo trascorso anche a Roma. Riccardo, in una prima fase, cercò di sottrarsi alla sorveglianza (scontò 6 mesi di carcere a Brescia per contraffazione di documenti) e poi di fare una vita ritirata, in considerazione dei desideri della moglie (era nel frattempo nato il secondogenito Luciano, omonimo del primogenito, morto a pochi mesi di età) e dei bisogni della famiglia. Nel 1936 nacque anche il terzo figlio, Giorgio. 1937-1943: MaturitàGrazie alla sua abilità di grafico, riuscì a mantenere più che dignitosamente la famiglia, lavorando per l'editore Sonzogno di Milano. Richiamato sotto le armi nel '39, rientrò con la famiglia in Veneto. Attività di propaganda antifascistaNel 1940, all'entrata in guerra dell'Italia, tornò all'attività politica, con modalità e spirito però più maturo e strutturato degli anni giovanili, divenendo animatore di un gruppo di propaganda antifascista operante, nelle fabbriche e nelle caserme, tra Mestre, Padova e Treviso. Pur sorvegliato, riuscì a esercitare la propria attività con abilità cospirativa, evitando l'arresto. GuerraNel 1941 venne richiamato ancora sotto le armi (aveva conseguito il grado di sergente già nel 1924 durante il servizio di leva), ma rimase in Italia presso il distretto di Mestre potendo quindi continuare nell'attività di propaganda. Nel 1942 partì per il Montenegro destinato al 120º Rgt. Fanteria della Divisione Emilia, lasciando a Mogliano Veneto la famiglia composta dalla moglie e dai tre figli maschi. A Castelnuovo, alle Bocche di Cattaro, conobbe Arrigo Boldrini (Bulow), con il quale riprese i contatti ai primi di settembre del '43. 1943-1944: ResistenzaFino al marzo 1944Prime azioni di ResistenzaTornato in Italia nel 1943, riprese contatto con i compagni di propaganda con i quali aiutò numerosi soldati italiani a sfuggire alla deportazione nei treni piombati. Dopo l'8 settembre si recò a Ravenna per riprendere contatto con Arrigo Boldrini. L'11 settembre, partecipò a una riunione con i dirigenti comunisti romagnoli all'Hotel Mare-Pineta di Milano Marittima[9] cui partecipano, oltre a lui, Arrigo Boldrini, Mario Gordini, Gino Gatta, Giuseppe D'Alema, Ennio Cervellati, Giovanni Fusconi, Agide Samaritani, Rodolfo Salvagiani e Zoffoli. Riunione nel corso della quale gli venne conferito l'incarico di occuparsi della costituzione di una formazione partigiana di montagna. Rientrato in Veneto, probabilmente per avvisare la famiglia del ruolo che stava per assumere, prese parte ai combattimenti in corso presso Gorizia, sino allo sbandamento di quella Brigata Proletaria. Il Gruppo LiberoDopo il 18 settembre, tornò a Ravenna con alcuni compagni. Destinato quindi ad Alfonsine (RA) per la preparazione dei volontari destinati alla montagna, dopo qualche settimana costituì un gruppo partigiano inizialmente formato da sei elementi (noto come "gruppo Libero"): Libero, Zita, Bruno, Aldo, Rino e Dome. Il 9 novembre 1943 il gruppo incominciò l'attività partigiana spostandosi nell'Appennino faentino con il compito di riunire gli eventuali isolati e i piccoli nuclei partigiani della zona. La Brigata Garibaldi RomagnolaAttorno al 20 novembre, in seguito a un'azione che “bruciò” la sua copertura, Libero ricevette l'ordine dal Comitato militare di pianura del PCI romagnolo di trasferirsi nell'Appennino forlivese, a ovest di Galeata (28 novembre 1943), per organizzare, in veste di comandante, la neocostituenda Brigata Garibaldi Romagnola, congiungendosi con il gruppo partigiano già lì presente e sino a quel momento guidato da Salvatore Auria. Nel giro di pochi mesi, il distaccamento passò da 40 a oltre 1.000 uomini effettuando dal dicembre 1943 al marzo 1944 numerose azioni di guerriglia costituendo anche, agli inizi di febbraio, una "repubblica partigiana" nella zona di Corniolo, esperienza che si protrasse per circa un mese, dando vita al cosiddetto "dipartimento del Corniolo". Durante l'inverno, fu favorita la fuga di decine di prigionieri britannici rifugiatisi nella zona. Tra le personalità aiutate nella fuga, numerosi generali britannici: Philip Neame, Richard O'Connor, John Combe, Edward Todhunter. A gennaio, l'Ispettore Generale delle Brigate Garibaldi, Antonio Carini (Orso) salì in montagna e rimase nella formazione fino a febbraio inoltrato. A fine gennaio, Orsi fu raggiunto da "Lino" (Angelo Guerra) che, sempre secondo quanto racconta Tabarri, avrebbe registrato in un rapporto (andato distrutto) come vi fossero "deficienze come la mancanza di commissari e quindi del lavoro politico (...) Per Libero vien detto che è stato ricondotto ad accettare la linea direttrice del Partito e del Fronte Nazionale e che accanto a difetti innegabili ha anche delle qualità per cui è possibile utilizzarlo. Ma bisogna inviargli un buon commissario."[10]. Secondo il rapporto Tabarri, sembra che Libero cercasse di dare alla Brigata una struttura fatta di reparti regolari o comunque molto numerosi, che contava di poter armare grazie a degli aviolanci concordati con alcuni generali britannici rifugiatisi presso la Brigata (aviolanci che, peraltro, furono effettivamente effettuati ai primi di aprile del '44, proprio all'inizio del grande rastrellamento che colpì la formazione). Tanto che Libero, dopo il 9 febbraio del 1944 "emanò addirittura bandi di chiamata alle armi per le classi 1923-24-25, in contrapposizione a quelli della Repubblica Sociale Italiana"[11]. Il 22 marzo 1944 Ilario Tabarri (Pietro Mauri), esponente del partito comunista locale e nuovo capo del Comitato[12], salì in montagna e comunicò a Libero che -su ordine del Comitato di pianura- avrebbe dovuto lasciare a lui il comando. A seguito di discussioni di tipo strategico e politico (oltre al fatto che la popolarità del Comandante Libero tra gli uomini suggeriva l'adozione di soluzioni non traumatiche), il 27 marzo venne deciso di trasformare la Brigata - forte di più di mille uomini - nel "Gruppo Brigate Romagna" (in pratica, una Divisione costituita da 3 Brigate), con Pietro Comandante e Libero Capo di Stato Maggiore.[13] Aprile e maggio 1944I rastrellamentiAi primi di aprile, Libero sarebbe stato autorizzato dal Comando a raggiungere la Toscana per contattare dei partigiani desiderosi di costituire una nuova Brigata. Il 3 e 5 aprile ebbero luogo nella zona appenninica degli aviolanci da parte degli Alleati (precedentemente concordati con Libero): fu in questa occasione che Libero, sempre stando a quanto riportato da Tabarri e Marconi, si sarebbe appropriato, informandone Tabarri, di uno dei due milioni di lire inviati dagli Alleati[14]. Tabarri avrebbe reagito inviando un gruppo di partigiani per recuperare il denaro ed esortare Libero a ritornare alla base per incontrarsi con lui. Libero contestò di essersi appropriato del denaro illecitamente, ma per evitare discussioni lo consegnò a Guglielmo Marconi, rifiutandosi però di presentarsi da Tabarri e proseguendo invece per la Toscana.[15]. La vicenda, come narrata da Tabarri e Marconi, aveva già sollevato le perplessità dei commentatori. Scrive in proposito Dino Mengozzi, quale curatore del memoriale di Marconi: "Boris [alias Adelmo Lotti, la staffetta] venne poi inviato da questi [Libero] alle Balze con una lettera per il Comando delle brigate e mezzo milione di lire. Il documento vergato da Libero giustificava tale spartizione del denaro per via della resistenza sul versante toscano, settore a cui era stato destinato dallo stesso Tabarri, come sappiamo. Dunque, Libero non aveva nascosto nulla. È quindi difficile comprendere l'amplificazione in negativo della sua condotta che viene fatta da Marconi nel testo e, non diversamente, da Tabarri nel suo Rapporto generale"[16]. Di lì a una settimana, un vasto e prolungato rastrellamento nazifascista produsse il disfacimento della Brigata (i. e. del costituendo Gruppo Brigate romagnole), mentre Libero rientrò in Toscana per prendere contatto con i comandi di pianura, prima nel ravennate, poi in Veneto e poi di nuovo nel forlivese. La "partenza" di LiberoA rastrellamenti esauriti e dopo la riorganizzazione delle forze partigiane avvenuta ai primi di maggio del '44[17], Tabarri inviò in pianura (il 7 luglio 1944) un "rapporto generale"[18], secondo il CUMER autoapologetico[19], nel quale egli mosse a Libero gravi accuse. Già in precedenza, il 21 aprile 1944, un "comitato di partito" interno alla Brigata, formato da Pietro (Ilario Tabarri), Savio (Luigi Fuschini), Paolo (Guglielmo Marconi), Lino (Angelo Guerra) e Jader (Jader Miserocchi) decise di chiedere al Comando centrale di pianura di autorizzare la condanna a morte di Libero.[20] Savio venne inviato in pianura per riferire al comando delle difficoltà in cui versava la Brigata e dei motivi e delle circostanze che avevano portato alla rimozione di Libero dal Comando (rimozione che dunque non risulterebbe concordata in precedenza con la pianura, come invece contraddittoriamente affermato nello stesso Rapporto generale di Tabarri): e infatti Boldrini registra nel suo Diario di Bulow in data 27 aprile 1944: "(...) Intanto Savio ci raggiunge. Dalla sua informazione risulta che si sono costituite, alla fine di marzo, tre brigate (...). Non è stato facile sostituire Libero che comandava con metodi autoritari. Il comando del gruppo brigate romagnole è stato assunto da Pietro (...) capo di stato maggiore Libero (...). Dalle notizie che ci fornisce Savio, sembra che Libero abbia in passato trattato col nemico per una tregua concordata e che sia scappato prelevando alcuni fondi. Rimaniamo costernati. È il primo caso di un così alto tradimento!". Il 21 aprile 1944, Angelo Giovannetti (Il Moro), in un suo scritto al Comitato Militare Provinciale di Ravenna, segnala che Libero è tenuto isolato, nella zona di Cervia, per essere al più presto sottoposto ad un interrogatorio "stringente e duro", prima che "abbia la sensazione di essere in disgrazia presso il Prov.le". Lo stesso Giovannetti osserva che "la polizia [fascista] lo cerca e, se cadesse nelle sue mani, sarebbe un serio pericolo per l'organizzazione; con questo elemento bisogna andarci molto cauti come con la dinamite..."[21] Bulow nel suo memoriale redatto nel 1985, ricorda che in data 11 maggio 1944: "(...) raggiungo "casa Spada d'Oro" per discutere di Zita (la compagna che convive con Libero) e del comportamento di Libero. Apprendiamo dai compagni di taglio Corelli, con i quali abbiamo un rapido contatto, che Libero è transitato in bicicletta per raggiungere il Ferrarese o il Veneto. Con Radames [Luigi Bonetti] ci rechiamo nuovamente dalla famiglia Antonio Pini, una di quelle basi sicure che non vorremmo venisse compromessa dalla presenza di Zita che si è rifugiata presso di loro. Dopo lunga e animata discussione, convinciamo Zita a mettersi in contatto con Libero per un suo ritorno al comando dell'8ª Brigata. Speriamo che le cose procedano come abbiamo deciso. Attraverso i nostri canali avvisiamo i compagni del Forlivese di quanto è accaduto e dell'esito della nostra missione.". Che nessun ordine di uccisione di Libero sia mai stato emanato dalla Pianura è peraltro confermato dallo stesso Tabarri, il quale nel suo "rapporto generale" afferma: "Il 21 [aprile 1944] fu decisa la partenza di Savio per la pianura onde fare un rapporto sulla situazione e sulle prospettive oltre a chiarire la questione di Libero e prendere le misure del caso (...). Savio deve rientrare entro il 5 maggio al fine di poter prendere tutte quelle decisioni che, in base alle disposizioni che avrebbe portato dal Comando centrale, si rendevano necessarie. La questione di Libero doveva essere regolata secondo il sistema da operare per i traditori ed in base a quello che risulta dal presente rapporto. La condanna a morte era il meno da farsi soprattutto per il pericolo che rappresentava per essere a conoscenza di troppe cose dell'organizzazione (...). Io non rilascio a Savio nessun rapporto scritto perché ne mancava il tempo (...) e perché non potevo non aver fiducia nel Commissario il quale condivideva pienamente i nostri punti di vista e prospettive. Non potevo neppure dubitare che non ritrasmettesse abbastanza fedelmente il contenuto della riunione (...). Savio non ritorna nel tempo previsto e risulta che non ha fatto nemmeno quello che era suo dovere e si era assunto di fare." La morteIn ogni caso, è certo che l'epilogo della vicenda sia stata la uccisione di Libero da parte degli stessi partigiani, anche se le fonti sono poco chiare circa le modalità con cui si arrivò a questo esito. Memoria divisa e dibattito storiograficoSulla figura di Riccardo Fedel e, più in generale, sulla prima Resistenza armata in Romagna, si è registrata, negli anni, quella che Claudio Pavone ha potuto definire una "frattura nella memoria". Bisogna attendere il 1981, ad esempio, perché Dino Mengozzi (per primo), arrivi a teorizzare esplicitamente addirittura l'esistenza di due successive e distinte Resistenze nella Romagna appenninica: una iniziata subito dopo l'8 settembre '43 e terminata coi grandi rastrellamenti d'aprile del '44; un'altra "ripartita" nel giugno/luglio del 1944 e terminata neanche 4 mesi dopo, nel novembre '44, con la liberazione di Forlì. Sul personaggio di Riccardo Fedel è quindi ancora molto vivo il dibattito storiografico, soprattutto sulle motivazioni addotte per giustificare la sua uccisione. Nel 1948, in una lettera alla sorella di Riccardo Fedel, Ilario Tabarri riferì di una "sentenza di morte” che sarebbe stata emessa da un tribunale partigiano il 22 aprile 1944 nei confronti di Libero Riccardi, processato in contumacia per i reati di disobbedienza (reiterata), tentato furto (o tentata appropriazione indebita), tentata insubordinazione, comunicazione illecita col nemico. Sentenza poi eseguita, sempre secondo questa lettera, da un distaccamento della 29ª GAP i cui componenti sarebbero stati tutti uccisi dai nazisti. Sulla reale esistenza –prima ancora che sull'autenticità- di tale “sentenza” sono stati avanzati diversi dubbi: nello stesso rapporto Tabarri –redatto nell'agosto del 1944, infatti, non si fa menzione di alcuna “sentenza” ed anzi si lamenta l'assenza di una decisione in tal senso da parte del comando di pianura; inoltre, l'intestazione della presunta “sentenza” alla 8ª Brigata ne dimostrerebbe la falsità, in quanto la denominazione di "8ª" fu assunta dalla Brigata solo un mese più tardi, e cioè nel maggio del 1944. Tant'è che nemmeno nel libro del 1969 di Flamigni-Marzocchi si fa riferimento ad una “sentenza” registrando invece che Libero avrebbe disertato (peraltro nel libro di Flamigni-Marzocchi non si fa nemmeno menzione del fatto che Riccardo Fedel fosse stato ucciso). Di certo v'è che alcuni partigiani (in particolare cinque: Guglielmo Marconi, Jader Miserocchi, Savio, Ilario Tabarri), dopo lo sbandamento della Brigata, mossero a Libero numerose critiche e accuse (in parte prima della sua morte, col “rapporto Savio” dell'aprile 1944, ma soprattutto dopo, col “rapporto Tabarri” del luglio 1944): una conduzione “attesista” della lotta partigiana; la tolleranza verso requisizioni arbitrarie; l'emissione di bandi e proclami senza autorizzazione del comando di pianura; il tentato furto di un lancio alleato; una gestione “autoritaria” degli uomini; una scarsa fede comunista; una certa disattenzione verso il lavoro dei commissari politici; contatti non autorizzati col nemico e, in definitiva, la responsabilità politica e militare della sconfitta della Brigata nel rastrellamento d'aprile del 1944. Tali accuse furono considerate dalla prima storiografia (Flamigni-Marzocchi) senz'altro fondate (ed è spesso questa unica opera storiografica la non aggiornata fonte di opere compilative anche recenti). Ma già negli anni ottanta emersero i primi dubbi (Mengozzi, Bedeschi, Bonali), poi rafforzati negli ultimi anni dal saggio di Natale Graziani (cui diede rilievo mediatico Giampaolo Pansa, a dispetto dell'orientamento dei familiari di Libero, decisamente di sinistra) e dal lavoro di ricerca di Giorgio e Nicola Fedel (figlio e nipote di Libero oltre che storici “non professionisti”, come peraltro gli stessi Flamigni, Marzocchi e Graziani) che ha scoperto una serie di documenti inediti di fonte tedesca e britannica dai quali emergerebbe una figura di Libero del tutto diversa da quella tramandata dal Rapporto Tabarri e dal libro di Flamigni e Marzocchi. Oggi, la tesi che si contrappone a quella degli anni settanta (e sviluppa quella critica degli anni ottanta) i cui principali esponenti sono, oltre a Nicola e Giorgio Fedel (autore di una "Storia del Comandante Libero"), Natale Graziani, Dino Mengozzi, Ennio Bonali, Sergio Lolletti, Oscar Bandini e altri, sostiene non solo che le accuse a Libero fossero del tutto infondate e costruite a posteriori per giustificare (sempre a posteriori) un omicidio tenuto segreto per almeno 4 anni (dal 1944 al 1948, anno in cui Tabarri “rivendica” di averne ordinato la condanna), ma anche che l'operato di Libero dovrebbe essere riconosciuto come encomiabile. Non manca, comunque, chi ancora oggi sostiene con forza la assoluta “bontà” e veridicità delle tesi degli anni settanta: la figlia di Ilario Tabarri, Bruna Tabarri; l'ex partigiano Jader Miserocchi; il Calendario del Popolo (con l'articolo del 2008). Né manca chi, per giustificarne l'uccisione nel '44, sottolinea come forse negli anni '20 Riccardo Fedel sia stato vicino al regime, leggendo in chiave "collaborazionista" alcuni episodi della sua giovinezza. L'Istituto Storico Parri dell'Emilia-Romagna nell'aprile del 2009 ha avviato il dibattito all'interno degli Istituti della Resistenza (come richiesto dai familiari di Libero) sulle risultanze delle ricerche di Giorgio e Nicola Fedel. Al convegno di Bologna ne è seguito un secondo a Padova ed un terzo avrebbe dovuto essere organizzato a Ravenna, ma alcune interferenze politiche l'hanno fatto annullare. Da un punto di vista puramente giuridico, c'è da notare che per nessuno dei reati militari citati nella lettera di Tabarri del 1948 (e ripresa poi dagli articoli del Calendario del Popolo e di Bruna Tabarri) sarebbe stata prevista la pena di morte (si veda Codice penale militare di guerra). Flamigni e Marzocchi, invece, nella loro ricostruzione, accusano Libero di diserzione che, se realizzata "al nemico" (art. 143 c.p.m.g.) o "in presenza del nemico" (art. 144 c.p.m.g.) avrebbe giustificato la pena di morte. Ma stando a quanto narrato dagli stessi Flamigni-Marzocchi, la diserzione di Libero sarebbe stata del tipo "fuori della presenza del nemico" (art. 146 c.p.m.g.), perché avvenuta, secondo gli autori di "Resistenza in Romagna", dopo i rastrellamenti: fattispecie, anche questa, non punibile con la morte. Versioni contrastantiSecondo alcuni interpreti, le accuse mosse nei confronti di Libero da Tabarri (Pietro) sarebbero da considerarsi false e costruite a posteriori per giustificarne "la purga" (così ad es. Natale Graziani; Giampaolo Pansa ed altri ex partigiani della Brigata quali il comandante Umberto Fusaroli Casadei, scomparso nel 2007, o ancora -a suo tempo- Falco, Dinòla ed altri). Altre fonti (sito web dell'Istituto Storico della Resistenza ravennate o pubblicazioni dell'ISR forlivese), si limitano a registrare le divergenze al comando tra i due personaggi, sottolineando come il dibattito interno alla Resistenza su come portare avanti la lotta fosse, all'epoca, la normalità: dividendosi i pareri tra la necessità di una guerra "convenzionale" (cui si ispirava, forse, Libero) e la necessità di una guerra di guerriglia (cui si ispirava, stando alle sue parole, Pietro). Rispetto alla presunta collaborazione di Riccardo Fedel col Regime negli anni venti, inserendosi nel dibattito generato nel febbraio 2008 da "Il Calendario del Popolo", Mimmo Franzinelli (in un articolo apparso su Il Sole 24 Ore intitolato "Fedel, né eroe né traditore")[26] l'ha definita "abborracciata" e "viziata (...) con provocazioni sgradite persino al capo della polizia Bocchini, che difatti riassegna Fedel al confino e lo mantiene nell'elenco dei sovversivi, in quanto 'giovane esaltato' (...) incapace di 'serio ravvedimento'"[27]. Nel dibattito si è inserita direttamente anche la famiglia di Riccardo Fedel la quale, negando la veridicità della lettura fornita dal "Calendario", in risposta ad un articolo di Maria R. Calderoni su Liberazione[28] che riprendeva -con intento anti-Pansa- quanto sostenuto dal Calendario del Popolo, ha ottenuto che la stessa Calderoni, il 24 aprile 2008, in un articolo dal titolo "Riccardo Fedel, una complessa, contraddittoria vicenda che ha bisogno di essere ancora indagata, forse" rendesse noto che "i (...) familiari (...), addolorati e offesi (...) hanno inviato (una lettera che) accompagna una voluminosa documentazione sulla innocenza del loro congiunto(...). Nella loro lettera impugnano la validità della sentenza emanata da un tribunale partigiano, giudicata praticamente un falso, costruito ad hoc e in data posteriore; contestano gli elenchi dell'Ovra; sottolineano i due provvedimenti di confino subito dal congiunto in quanto 'pericoloso elemento comunista'; accusano il 'Calendario' di manipolazione. E vorrebbero che l'Anpi nazionale promuovesse la riapertura del crudele caso Fedel, approfondendo tutte le carte, nessuna esclusa (...)". La Calderoni chiude l'articolo affermando che "La contraddittoria vicenda di Riccardo ha bisogno di essere ancora indagata, forse.". ConclusioniAl di là delle polemiche giornalistiche, di certo v'è che quel che viene da molti considerato "l'antagonista" di Riccardo Fedel - Ilario Tabarri - nell'immediatezza degli eventi (tra la fine di aprile e i primi di luglio del 1944) ebbe l'opportunità di muovere a Libero (prima tramite Savio e poi nel suo "rapporto generale") accuse e critiche molto gravi, quando verosimilmente Libero era già stato ucciso. Il "rapporto generale" di Tabarri -nel quale, nonostante la data di redazione (7 luglio 1944), nulla si dice della condanna o uccisione di Riccardo Fedel- è rimasto a lungo l'unica fonte sulla cui base è stata ricostruita la storia di Libero. Infatti, nessun altro documento dell'attività della 8ª Brigata Garibaldi Romagna è sopravvissuto al rastrellamento dell'aprile 1944, perché distrutto da Tabarri stesso. Peraltro, fu proprio Tabarri a curare, nel dopoguerra, l'archiviazione dei documenti della Brigata depositati all'Istituto Storico Provinciale della Resistenza di Forlì[29]. Tale lacuna non aveva, finora, consentito di giudicare l'operato di Libero al comando della Brigata alla luce di fonti "neutrali". Oggi però, sulla base di quanto sta emergendo dalle fonti d'archivio tedesche, britanniche e fasciste dell'epoca - finalmente consultabili e rese pubbliche dalle ricerche di Giorgio e Nicola Fedel[30]- si potrà, probabilmente, fare luce su alcune circostanze. Per esempio, sembra ormai pacifico che Libero fosse considerato dai nazifascisti un grave pericolo da eliminare appena possibile[31], tra i "banditi" romagnoli più ricercati, assieme a Silvio Corbari[32]. Già nel 1984, Lorenzo Bedeschi[33] notava come -in certa memorialistica- si tendesse a far iniziare "la 'vera storia' della resistenza [...] con la defenestrazione di Libero" ignorando "tutto quanto s'era compiuto in vari modi nei cinque mesi precedenti dai partigiani operanti in queste colline appenniniche; [trascurando] il ruolo avuto dal Fronte nazionale di liberazione romagnolo che aveva conferito a Libero il comando degli uomini [...]; [disattendendo] le varie espressioni d'antifascismo nel frattempo sviluppatesi non solo fra i ribelli di Libero ma anche nel movimento dell'Uli e di altri orientamenti riflettenti altrettante radici ideologiche e politiche -dai repubblicani ai cattolici- mai spente nel Forlivese. È ben vero che i primi rastrellamenti tedeschi [...] nonché gli orientamenti internazionali facevano ormai pendere la bilancia verso l'interventismo guerreggiato, ma non per questo sotto il profilo storico appare legittimo addossare a Libero tutti gli errori, le incertezze e perfino i lutti causati dal devastante rastrellamento nazifascista sull'Appennino centrale [...] mentre inspiegabilmente non pare attribuirsi un adeguato rilievo ad azioni compiute [...] prima dell'investimento di Tabarri, quali l'occupazione del Corniolo sulla strada per la Campigna o il disarmo dei militi della caserma di Galeata. Donde il sospetto [...] di una certa unilateralità". Tra le "problematiche ormai apertamente dibattute nelle sedi scientifiche" Bedeschi indica oltre "la incerta fine di Libero (...), il significato e il valore della sua opera di primo comandante dei ribelli in questa zona dell'Appennino se si pensa che la struttura fondamentale della futura 8ª brigata coi suoi quadri militari migliori risulta essere la stessa costituita a suo tempo [da Libero]." Simile considerazione potrebbe farsi circa la 28ª Brigata GAP, i cui fondatori ed animatori furono in gran parte espressione dei quadri dirigenti della Brigata Garibaldi Romagnola di Libero (si veda, per tutti, Falco). Sempre a proposito di Libero, Dino Mengozzi[34] afferma che "si è forse eccessivamente insistito, nel passato, su incapacità e deficienze del comandante di quella prima formazione per spiegare la disgregazione delle forze partigiane verificatasi in aprile. Pare più accettabile (...) l'ipotesi che vada messo l'accento sull'importanza delle retrovie romagnole per il Comando tedesco. Con tutta probabilità, a ciò si deve la notevole mobilitazione di uomini e mezzi militari per tenerle sgombre". Il dibattito e la ricerca storica sul personaggio e la sua vicenda (anche pre-resistenziale) stanno comunque, tuttora, proseguendo e la sua figura appare, in un certo senso, paradigmatica di tutto un periodo storico. Note
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