Le rane chiedono un re
Le rane chiedono un re (Ranae regem petierunt) è la seconda favola del primo libro delle Fabulae di Fedro, che è attribuita a un discorso di Esopo.[1] TramaDurante la tirannia ad Atene di Pisistrato, il popolo è affranto e senza speranza, così il celebre Esopo decide di raccontare agli ateniesi una favola. Le rane, che vagavano libere nelle paludi, chiesero con grande clamore un re a Zeus, che frenasse con la forza i loro costumi troppo dissoluti. Il padre degli dei rise e diede loro un piccolo travicello, che, lanciato, per l’improvviso movimento e per il rumore nel cadere nello stagno, spaventò quella specie fifona. Subito tutte si rintanarono nel fango impaurite, fino a che cautamente una, in gran silenzio, fece capolino. Ispezionò per un po’ il re e poi chiamò tutte le altre. Vedendo che non si trattava altro che di un semplice travicello inanimato, subito tutte fugarono ogni paura. Le rane fecero a gara a chi lo raggiungeva prima e poi alcune vi salirono sopra e ognuna lo insultò come meglio poteva, deridendo Zeus e chiedendogli un re migliore, dato che quello era inutile. Allora Zeus, indispettito, gettò nello stagno delle rane una terribile biscia, che con i suoi denti aguzzi afferrò molte rane. A quel punto inutilmente le rane fuggivano di qua e di là, cercando di scamparla senza successo. Le rane superstiti mandano Ermes come ambasceria sull’Olimpo, supplicando Zeus di riprendersi quella biscia malvagia. Ma egli disse a loro: “Vi avevo mandato un buon re e voi l’avete rifiutato. Adesso, tenetevi quello malvagio”. MoraleLa storia suggerisce che è meglio avere governanti incapaci ma innocui, piuttosto che astuti e autoritari. Più in generale, il consiglio è quello di tollerare una situazione spiacevole se c'è il rischio che, cambiandola, questa peggiori radicalmente: a volte è meglio accontentarsi di qualcosa che non ci danneggia, piuttosto che peccare di superbia e ricercare qualcosa di migliore che però poi si rivela in realtà peggiore. Nella cultura di massaLa favola fu raccontata da Esopo in un discorso ad Atene durante la tirannia di Pisistrato. Il suo scopo era di persuadere gli Ateniesi a deporre Pisistrato in favore di un altro tiranno, oppure, secondo altre versioni, addirittura per criticare la tirannia, a cui tra l'altro era contrario. Però Pisistrato, offeso e tra le altre cose contro la libertà di parola, lo scacciò dalla città. Il fatto che Fedro introduca la novella come un racconto di Esopo, ha generato il dubbio sull'attribuzione di questa favola. Come altre favole, essa fu trasformata in poesia da Jean de La Fontaine pubblicata nella terza raccolta delle col titolo di "Le Rane vogliono un re"[2]. A differenza della favola originale, l'animale che stermina le rane non è una biscia, ma una gru. La favola era inoltre una delle preferite del poeta Giuseppe Giusti, che nel 1841 ne scrisse una versione in versi, col titolo "Il Re Travicello"[3]. Re TravicelloDalla favola è scaturita "Re Travicello", un'espressione idiomatica della lingua italiana. Si usa per indicare, spesso in senso dispregiativo, un sovrano inetto o una persona che occupa una posizione importante, ma che non ha autorità o capacità sufficienti a esercitarne il potere.[4] Note
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