A Viggiù, una cittadina del varesotto, esiste un simpatico gruppo privato di vigili del fuoco. Questi ritengono la canzonetta I pompieri di Viggiù, di gran successo all'epoca, offensiva per il loro glorioso corpo, tant'è che non gradiscono neppure essere chiamati "pompieri", bensì "vigili". Decidono così di recarsi a Milano per interrompere d'autorità la rivista omonima. Inoltre il comandante intende convincere sua figlia Fiamma, che recita nella stessa rivista, ad abbandonare il mondo del teatro e a tornare in famiglia a Viggiù. I vigili del fuoco si spostano ben volentieri, col motivo non dichiarato di poter assistere alla rivista e soprattutto di poter ammirare le belle donne, occasione generalmente negata ai residenti di piccole località di provincia. Il film è il pretesto per una lunga sequenza di spettacolari numeri di teatro di rivista; comunque l'esile intreccio si scioglie nel migliore dei modi: i vigili del fuoco, entusiasmati dal magico mondo del teatro, rinunciano ai loro propositi e Fiamma continua la sua brillante carriera con il consenso del padre.
Accoglienza
Critica
Il Morandini cita Ennio Flaiano che nel 1949 si espresse a proposito di questo film sostenendo che "l'errore dei critici fu quello di volerlo considerare un film, mentre è un documentario che anticipa in Italia le gioie della TV"; sotto questo profilo, la pellicola "è un capolavoro involontario di reportage, una preziosa antologia dell'avanspettacolo nell'Italia del dopoguerra".[1]