Gli Eroti (in greco antico: Ἒρωτες?, Èrōtes), adattati in lingua italiana anche come Amori o Amorini, sono un insieme di figure collettivamente associate all'amore divino e alla sessualità, presenti all'interno della poesia e della letteratura[13] e dell'arte classica ed ellenistica[14] fondate sulla mitologia e sulla religione greca. Erotes (eroti) è il plurale di Eros (Ἔρως), questo il dio e la potenza divina del desiderio sessuale[15][16], e dell'amore divino a cui appartiene una ricca letteratura mitologica e teologica.
Tra gli Eroti, oltre a Eros stesso, venivano in genere contati[17]:
Con il termine "Eroti" si indicano anche quei devoti alla divinità di Eros nei suoi centri di culto a Filadelfia e a Pario nella Misia[18].
Nella filosofia neoplatonica di Plotino[19] gli Erotes sono quei due aspetti, o dèmoni, individuali, delle anime degli uomini che corrispondono rispettivamente da una parte a quell'Afrodite intesa come "Anima universale", purissima ed esclusivamente rivolta al Nous (νοῦς) nella cui contemplazione genera l'Eros divino, e dall'altra a quella Afrodite intesa come "Anima del mondo" che invece genera un altro Eros che presiede alle unioni umane.
Gli Eroti, spesso raffigurati nella forma di fanciulli alati, divengono motivo costante dell'arte ellenistica, ma possono anche apparire spesso nell'arte romana in forma di Erotes, Cupido o di Amorini[20] laddove tuttavia:
«Le innumerevoli figurazioni ellenistiche e romane di eroti o amorini (Eros viene chiamato a Roma Amor o Cupido) sono spesso simboli della vicenda del neofita durante l'iniziazione o dell'anima nell'aldilà, vicenda che si collega la favola di Amore e Psiche, narrata da Apuleio nelle Metamorfosi.»
Nella successiva tradizione classica dell'arte occidentale (soprattutto nel barocco e nel rococò), gli Eroti divengono sempre più onnipresenti come motivo decorativo e indistinguibili dalle figure conosciute col nome di putti o amorini[21].
Ambito mitologico e letterario
La prima apparizione di Eros (Ἔρως) è nelle opere attribuite ad Omero. In tale contesto Eros non viene personificato, quanto piuttosto come principio divino corrisponde all'irrefrenabile desiderio fisico come quello vissuto da Paride nei confronti di Elena (Iliade III, 441-2) o ancora lo stesso desiderio provato da Zeus nei confronti di Era (Iliade XIV, 293-5) o, infine, ciò che rende tremanti le membra dei proci di fronte a Penelope (Odissea XVIII, 212-3).
Nei lirici greci del VII/VI a.C. tale principio divino si spiritualizza ma presenta comunque delle caratteristiche crudeli e ingestibili. Manifestandosi improvvisamente, Eros agita in modo cupo le sue vittime:
«Eros che scioglie le membra mi scuote nuovamente: dolceamara invincibile belva»
(Saffo 61. Traduzione di Marina Cavalli, in Lirici greci. Milano, Mondadori, 2007, pag.273)
Nell'opera teogonica di Esiodo sono due i passaggi che riguardano Eros qui attestato per la prima volta come quel dio primordiale in grado di domare con la passione sia gli dèi che gli uomini:
«Orbene, innanzitutto venne all'esistenza lo Spazio beante[22], poi a sua volta la Terra dal largo petto, sede per sempre sicura di tutti gli immortali che abitano le cime del nevoso Olimpo, e il Tartaro nebbioso nel fondo della Terra dalle larghe strade, poi Eros che è il più bello tra gli dei immortali e scioglie le membra[23], e di tutti gli dei, come di tutti gli uomini, doma nel petto il pensiero e la saggia volontà.»
(Teogonia 120-2. Traduzione di Cesare Cassanmagnago, in Esiodo. Tutte le opere e i frammenti con la prima traduzione degli scolii. Milano, Bompiani, 2009, pag.121)
In un secondo passaggio Esiodo evidenzia Eros come quel dio che, insieme ad Himeros (Ἵμερος,[24]), accompagna Afrodite appena nata[25]:
«L'accompagnò Eros e il bel Desiderio la seguì non appena venuta alla luce e avviata a raggiungere la razza degli dei»
(Teogonia 201-2. Traduzione di Cesare Cassanmagnago, in Esiodo. Tutte le opere e i frammenti con la prima traduzione degli scolii. Milano, Bompiani, 2009, pag.127)
Nota lo scoliaste che mentre Eros nasce dalla vista, Himeros nasce dal sentimento di brama (epythimeìn) dopo aver visto.
In un frammento di una tragedia perduta di Euripide, da lui scritta prima del 422 a.C., Stheneboia (Σθενέβοια) si sostiene che esistano due Eros[26] Così come nella sua Ifigenia in Aulide (406 a.C.) compaiono due ambiti del dio Eros:
«Avventurato chi prova fa della dea dell'amore con temperanza e misura, e con grande placidità lungi dagli estri folli, perché duplice è l'arco della beltà che l'Amore (Eros) tende su di noi: l'uno ci porta felicità, l'altro la vita torbida fa.»
Uno degli Amori provoca la sophia, mentre l'altro distrugge l'anima dell'uomo[27].
Accanto alle divinità di Eros e Himeros, si pone il dio Anteros (Ἀντέρως, lett. "contro amore" inteso come amore ricambiato[28]) come divinità che si oppone o completa la potenza di Eros, intendendo sia l'amore ricambiato sia l'amore di chi è amato confrontato a quello di chi ama. In quest'ultimo senso era anche la divinità propria dell'amore pederastico proprio dei ginnasi[29]. Pausania ci narra di un altare di Eros e di un controaltare di Anteros collocati nel ginnasio di Elide[30] e nell'Accademia di Atene in qualità di divinità vendicatrice dell'amore respinto:
«Davanti all'ingresso dell'Accademia c'è un altare di Eros la cui epigrafe attesta che Carmo fu il primo degli Ateniesi che abbia dedicato un altare a Eros. Invece quello che è in città, ed è chiamato Anteros, sarebbe stato dedicato dai meteci per il seguente motivo. Un meteco di nome Timagora si era innamorato del giovanetto ateniese Melete. Questi però disdegnava quell'attenzione e un giorno invitò Timagora a salire sul punto più alto della rupe e a gettarsi giù. Timagora, che era pronto a dare senza risparmio la vita e a favorire il giovanetto in ogni cosa che gli avesse chiesto, senza alcun indugio si precipitò. Quando Melete vide morto Timagora, tanto grande fu il suo rimorso, che saltò giù da quella stessa roccia e così, precipitatosi, morì. In seguito a questo fatto è d'uso per i meteci onorare lo spirito vendicatore di Timagora nell'aspetto del demone Anteros.»
(Pausania, in Viaggio in Grecia, I, Attica XXX, 1. Traduzione di Salvatore Rizzo. Milano, Rizzoli, 2007, pp. 268-269)
In Cicerone in De natura deorum (III, 23), Anteros è figlio di Afrodite e di Ares, quindi fratello di Eros. Sempre Cicerone rende conto dei complessi mitologemi afferenti a queste figure:
(LA)
«Cupido primus Mercurio et Diana prima natus dicitur, secundus Mercurio et Venere secunda, tertius qui idem Anteros Marte et Venere tertia»
(IT)
«Il primo Cupido si dice che sia figlio di Mercurio e della prima Diana, il secondo di Mercurio e della seconda Venere, il terzo che è lo stesso che Antero, di Marte e della terza Venere»
(Cicerone, De natura deorum, III, 23. Traduzione di Cesare Marco Calcante, pp. 356-359)
Un'ulteriore figura accanto a Himeros viene a delinearsi con l'opera di Platone il quale, nel Cratilo[31] gli affianca Pothos (Πόθος, "nostalgia") già presente nella precedente letteratura ma che tuttavia nell'opera del filosofo ateniese viene ulteriormente a configurarsi come quel desiderio struggente per qualcuno o qualcosa che non può essere conquistato o comunque è lontano, a differenza di Himeros che si brama in quanto presente.
«Vento invernale. Eros dolceamaro mi strappa alle baldorie e mi trascina, Muisco, verso di te, Il Desiderio infuria con soffi violenti: Tu accogli in porto il navigante nel mare di Cipride»
(Meleagro, In Poesia ellenistica n. 107 (Antologia Palatina, XII, 167). Traduzione di Giulio Guidorizzi. Milano, Mondadori, 1978,p. 578-579)
Plinio in Historia Naturalis[32] ci narra di una sua statua scolpita da Skopas (IV, sec. a.C.) e di un suo culto in Samotracia come sanctissimis caerimoniis[33]. Pausania[34] ci dice di una sua statua, sempre di Skopas, nel santuario di Afrodite a Megara.
Nonno di Panopoli[35], riprendendo Alcmane[36] ci dice che Pothos è figlio della dea Iride (Ἶρις), questa anghelos (messaggera) degli dèi e potenza dell'arcobaleno.
«Se Zefiro imperversa, mostrate alla sposa di Zefiro, Iris, madre di Desiderio, Arianna oltraggiata.»
(Nonno di Panopoli, Le dionisiache, XLVII, 340. Traduzione di Domenico Accorinti, Milano, Rizzoli, 2004, pp. 546-549.)
Figura emergente in questo ambito è anche Πειθώ Peithṑ (Persuasione) che, se nella teogonia esiodea[37] è una figlia di Oceano, risulta anche essere un appellativo di Afrodite in qualità di titolo cultuale[38], o anche una dea del matrimonio[39], ponendosi spesso, nella letteratura e nelle arti, al seguito di Afrodite.
Pindaro, nel frammento 122[40] ricorda così il Senofonte della XIII olimpiade che dona cento etère al tempio di Afrodite di Corinto:
«Voi fanciulle che accogliete gli ospiti come ancelle di Peitho nella suntuosa Corinto che bruciate ambrate lacrime d'incenso spesso nel pensiero volate verso la madre degli Amori, Afrodite urania che a voi concede, libero da rimprovero, o innocenti, di donare su morbidi cuscini, il frutto della vostra tenera giovinezza. Perché è bello quando si rispetta la Necessità.»
(Pindaro, framm. 122 Maehler, 1-9)
Imene (Ὑμέναιος) è un'ulteriore figura di questo ambito. Il suo nome deriva probabilmente dal canto proprio dell'epitalamio (ἐπιϑαλάμιος [λόγος]): Ὑμήν, Ὑμήναι ὢ ο ὢ Ὑμήν, Ὑμήναιε[41]. Da qui la nascita di racconti che lo volevano figlio di Dioniso e di Afrodite o ancora di Apollo (o Magnete) e una Musa. In arte viene rappresentato biondo, vestito di color zafferano e con la testa coronata di fiori mentre impugna una fiaccola per il corteo nuziale serale. La sua divinità riguarda quindi il matrimonio. Lo si immaginava morto (o rapito) il giorno prima delle sue nozze o ancora che avrebbe cantato melodiosamente al matrimonio di Dioniso e Altea (o Arianna) e subito dopo perito (nella tradizione orfica viene resuscitato da Asclepio). Gli Ateniesi lo vollero fanciullo povero che ambiva sposare una ragazza benestante e non potendo ottenere la sua mano, la seguiva ovunque fino a seguirla nel suo viaggio ad Eleusi insieme ad altre compagne. Catturate dai briganti che scambiarono Imene per una ragazza, questi li uccise nel sonno, salvando l'amata e le altre fanciulle, e ottenendo la sua mano al rientro ad Atene.
Un'ulteriore figura che non compare in letteratura ma solo su una pyxis del V secolo a.C., oggi conservata al British Museum di Londra[42], è Hedylogos (Ἡδυλογος, "dolce discorso").
Le storie che riguardano gli Erotes sono piene anche di scherzi, dispetti e burle maliziose, un tema popolare nella cultura ellenistica, in particolare nel II secolo a.C.[43], ma anche oggetto di lamentazioni:
«Via scagliate, Amorini! Bersaglio per molti son io Senza risparmio, da pazzi! Vincendo, voi vi farete fra i numi la fama di celebri arcieri, d'una fàretra immensa detentori.»
(Posidippo, in Antologia Palatina, XII, 45. Traduzione di Filippo Maria Pontani. Torino, Einaudi, 1978, vol IV, pp. 27-28)
«Sì mi ferì la vorace Filènio: segreta la piaga, morde il dolore fino alle radici. Sono finito, Amorini, sparisco, perisco: dormendo quest'etèra calcai: tocco l'Averno.»
(Asclepiade, La vipera. In Antologia Palatina, V, 162. Traduzione di Filippo Maria Pontani. Torino, Einaudi, 1978, vol I, pp. 198-199)
Gli Eroti furono invocati in antichità anche in diversi incantesimi al fine di indurre all'amore o al suo contrario[44].
Ambito teologico e filosofico
Il tema di Eros/Amore è citato in Parmenide (V sec. a.C.)[45] ma in Empedocle (V sec. a.C.) acquisisce un ampio impianto teologico quando il filosofo siceliota pone accanto alle quattro "radici" (ριζώματα), poste a fondamento del cosmo, e motore del loro divenire nei molteplici oggetti della realtà, due ulteriori principi: Φιλότης (Amore) e Νεῖκος (Odio, anche Discordia o Contesa); avente il primo la caratteristica di "legare", "congiungere", "avvincere" (σχεδύνην δὲ Φιλότητα «Amore che avvince»[46]), mentre il secondo possiede la qualità di "separare", "dividere" mediante la "contesa". Così Amore nel suo stato di completezza è lo Sfero (Σφαῖρος), immobile (μονίη) uguale a sé stesso e infinito (ἀλλ' ὅ γε πάντοθεν ἶσος 〈ἑοῖ〉 καὶ πάμπαν ἀπείρων[47]). Egli è Dio. Significativo è il fatto che Empedocle appelli Amore con il nome di Afrodite (Ἀφροδίτη)[48], o con il suo appellativo di Kýpris (Κύπρις)[49], indicando qui la «natura divina che tutto unisce e genera la vita»[50]. Tale accostamento tra Amore e Afrodite ispirò al poeta romano Lucrezio l'inno a Venere, collocato nel proemio del De rerum natura. In questa opera Venere non è la dea dell'amplesso, quanto piuttosto «l'onnipotente forza creatrice che pervade la natura e vi anima tutto l'essere», venendo poi, come nel caso di Empedocle, opposta a Marte, dio del conflitto.
Con Platone (V-IV sec. a.C.) si compie il fondamentale passo filosofico e teologico inerente a Eros. Nel Fedro[51] l'anima (ψυχή, psyché) umana decade dal mondo perfetto e intelligibile nel corpo fisico, durante il suo esilio prova un'irresistibile nostalgia per la condizione perduta. Nel Simposio[52] Eros è un demone figlio di Indigenza (Πενία Penia, la madre) e Espediente (Πόρος , Poros, il padre). Povero come la madre, Eros aspira alla ricchezza del padre: Eros è quindi anche una tendenza, una mania (μανία), uno stato emotivo provocato dalla bellezza terrestre che stimola il ricordo di quella perfetta e intelligibile, celeste, da cui l'anima è caduta[53]. Non è tuttavia la "bellezza" l'oggetto del desiderio dell'anima ma la sua fecondità[54]. A questo punto il filosofo ateniese individua due tipi di Eros: l'amore sensuale (πάνδημος ἔρως, pandemos eros) attratto dalla bellezza dei corpi provocante la fecondità fisica, e l'amore celeste (ουράνιος ἔρως , oruanios eros) attratto dall'amore spirituale e provocante al fecondità spirituale[55]: «E malvagio è quell'amante che è volgare e ama il corpo più dell'anima»[56]. Il vero amante si eleva quindi per sei gradi di attrazione che lo conducono dall'attrazione fisica alla realizzazione spirituale[57]: amore per un corpo bello; amore per la bellezza fisica in sé; amore per la bellezza delle attività, delle condotte; amore per la bellezza del sapere; amore per la Bellezza in sé: «È questo il momento della vita, o caro Socrate -disse la straniera di Mantinea-, che più di ogni altro è degno di essere vissuto da un uomo, ossia il momento in cui un uomo contempla il Bello in sé. E se mai ti sarà possibile vederlo, ti sembrerà ben superiore all'oro, alle vesti, e anche ai bei ragazzi e ai bei fanciulli [...] Che cosa, dunque, noi dovremmo pensare -disse- se ad uno capitasse di vedere il Bello in sé assoluto, puro, non affatto contaminato da carni umane e da colori e da altre piccolezze mortali, ma potesse contemplare come forma unica lo stesso Bello divino?».
Il filosofo ed esegeta di Platone, Plotino (III sec. d.C.), continuatore coerente dell'opera del filosofo ateniese, riprende, nelle Enneadi, le conclusioni dello stesso inserendo tuttavia tra le tre entità/persone da lui indicate con il termine di hypostasis (ὑπόστᾰσις): Hen (ἕν, l'Uno), il Nous (νοῦς, l'Intelletto) e la Psyche (ψυχὴ, Anima) una relazione di "processione" (πρόοδος). Dal che l'unica "realtà" consiste in queste tre hypostasis che procedono una dall'altra: dall'Uno (il Bene, il primo, inconoscibile e ineffabile mistero dell'unità, intuibile solo per mezzo dell'esperienza religiosa) procede l'Intelletto (altro dall'Uno, è la prima molteplicità che "pensa", il mondo eterno delle Idee, è il logos dell'Uno che contempla l'Uno e da questa contemplazione deriva la sua generazione delle Idee), dall'Intelletto procede l'Anima universale (Afrodite celeste) che intermedia fra l'essere costituito dalle tre hypostasis e il mondo sensibile. Se l'Uno rende conto dell'unità del reale, e l'Intelletto della sua intelligibilità, l'Anima universale rende conto della vita e del movimento contemplando l'Intelletto con la sua parte superiore, mentre rende conto delle forme sensibili con la sua parte inferiore (Afrodite terrestre). Al di fuori di queste tre ipostasi eterne tutto il resto, quindi il mondo sensibile, è privo di realtà, è pura apparenza, inganno e non-Essere. Dall'Anima universale (Afrodite celeste) procedono l'Anima del mondo (Afrodite terrena) e le anime individuali dei viventi. Ma se l'Anima del mondo essendo vincolata al corpo dell'universo con un legame non dissolubile risulta eterna nelle sue caratteristiche sensibili, le anime individuali sono in qualche modo destinate a "ribellarsi" alle leggi dell'universo, oppure ad armonizzarsi alle stesse. Nel primo caso sono destinate alla corruzione, trasmigrando di esistenza in esistenza, cambiando corpi fisici ma potendo, se lo vogliono, riconquistare la condizione dell'unità perduta. Nella teologia plotiniana ciò che è relativo ai sensi non solo riguarda quell'ambito, ma rimanda sempre alla realtà intellegibile da cui procede. Quindi ciò che è "bello" per i sensi rimanda sempre all'"Idea" del Bello assoluto di cui l'arte ne è una rivelazione. Quindi l'artista non produce da sé, ma rivela l'Essere di cui intuisce la portata. Chi contempla l'opera d'arte esce da sé per vivere l'esperienza dell'opera solo apparentemente, in realtà è l'opera stessa con la sua bellezza che lo mette in contatto con la sua vera natura, con l'anima che è in lui. Allo stesso modo nella vita affettiva il bello corporeo può avere la funzione di rivelare ciò che è vero in noi stessi. Ne consegue che se l'uomo ricerca i beni o le bellezze sensibili lo fa innanzitutto perché questi lo richiamano all'Uno, al Bene, alla sua vera natura di cui sono immagine. Così Eros è sia una divinità che aiuta l'uomo a ricongiungersi al Bene, sia un diverso essere, un demone, che lo spinge a mischiare l'anima con la materia. Essendo molteplici gli Eros delle anime, Plotino li intende come Eroti (Erotes).
Il filosofo tardo platonico Proclo (V sec. d.C.) è, tra l'altro, autore di un inno ad Afrodite che riassume poeticamente la teologia platonica sul tema:
«Cantiamo la stirpe onorata di Afrogenia
e l'origine grande, regale, da cui tutti
nacquero gli immortali alati Amori,
dei quali alcuni con dardi intellettivi saettano
le anime, affinché punte da stimoli sublimanti di desideri,
agognino vedere le sedi d'igneo splendore della madre[58];
altri, invece, in obbedienza ai voleri e ai previggenti, salutari consigli del padre[59],
desiderosi d'accrescere con nuove nascite il mondo infinito,
eccitano nelle anime il dolce desiderio della vita terrena.
Altri ancora sui vari sentieri degli amplessi nuziali
incessantemente vigilano, onde da stirpe mortale
immortale rendere il genere degli uomini oppressi dai mali
e a tutti stanno a cuore le opere di Citerea, madre d'amore.
Ma, o dea, poiché tu dovunque porgi orecchio attento,
o che circondi il vasto cielo, dove dicono che tu
sia l'anima divina del mondo eterno,
o che risiedi nell'etere al di sopra dell'orbite dei sette pianeti[60],
riversando su di noi, che da te discendiamo, indomite energie,
ascolta, e il doloroso cammino della mia vita
guida coi tuoi santissimi strali, o veneranda,
placando l'impeto gelido dei desideri non pii.»
(Proclo, Inno ad Afrodite. Traduzione di Davide Giordano, in Proclo, Inni, Firenze, Fussi, 1957, pp.26-29)
Gli Eroti nell'arte
Gli Erotes compaiono nell'arte greca, segnatamente nella pittura vascolare, a partire dal 520 a.C. Inizialmente come compagni della dea Afrodite, successivamente da soli. La prima attestazione di Afrodite che tiene in braccio Eros e Himeros risale invece al 570 a.C., a una pinax attica a figure nere oggi conservata al Museo archeologico nazionale di Atene (cfr. [1]).
I primi fregi scolpiti raffiguranti un gruppo di erotes e fanciulle alate su carri trainati da capre, sono stati creati per ornare i teatri dell'antica Grecia nel II sec. a.C.[61] La rappresentazione di erotes in tali fregi è divenuto poi comune nelle scene di caccia[62].
A causa del loro ruolo nel letteratura classica, la rappresentazione di eroti è a volte puramente simbolica (indicante nella sua generalità una qualche forma di amore), oppure possono essere anche ritratti come caratteri singoli[63]. Così la loro presenza in immagini altrimenti non sensuali, come in quelle raffiguranti due donne, è stato interpretato da alcuni autori come indicante un "sottotesto" lesbico o comunque omoerotico[63].
Nel culto di Afrodite in Anatolia, immagini iconografiche della Dea con tre erotes al seguito simboleggiano i tre regni su cui ella aveva il dominio: terra, cielo e acqua[64].
Arte cristiana
Essi sono rappresentati come bambini maschi alati (le successive rappresentazioni della figura del cherubino-angelo è stata ispirata da loro).
Dal punto di vista iconografico gli angeli cristiani verranno raffigurati con le ali solo a partire dal IV secolo, questo per evitare la loro confusione con divinità pagane come Nike.
^George M. A. Hanfmann. Oxford Classica Dictionary. Oxford University Press, 1970. In italiano Dizionario delle antichità classiche Cinisello Balsamo, Paoline, 1995, pag.849.
^Cfr. Salvatore Rizzo, in Pausania, I, p.460 nota 9.
«Il sentimento, la capacità di sentire, è un elemento impalpabile, che trascende propriamente la vista; ma a partire dalla fine del V secolo a.C., e per quasi tutto il IV secolo, gli artisti greci si preoccuparono di dare una rappresentazione visiva dell'uomo come essere sensibile. È questa l'epoca in cui figure alate di Eros e degli Eroti svolazzanti divengono l'allegoria più comune del sentimento amoroso [...]»
^Nel capitolo Beyond death John Ferguson, The Religions of the Roman Empire (Cornell University Press, 1970), p. 145 spiega
«More frequently they are Erotes, Cupid, Amorini; the theme goes back to Hellenistic art and is found at Rome from the early Empire or even before; sometimes the Erotes appear in their own right. It seems clear that they represent the soul, and that in the hunting and racing scenes we have the agon, the trial or struggle of the soul.»
^Leonard Barkan, Unearthing the Past: Archaeology and Aesthetics in the Making of Renaissance Culture (Yale University Press, 1999), p. 138.
^Nota Cesare Cassanmagnago, allievo di Giovanni Reale, (Op.cit. pag.927 n.23) come sia del tutto inopportuno rendere Χάος (Chaos) con il termine italiano di "caos" indicando questo uno stato di confusione che nulla ha a che fare con la nozione greca. Lo scoliaste lo indica come kenòn, lo spazio vuoto tra cielo e terra dopo che una possibile unità originaria fu spezzata. D'altronde lo stesso Esiodo lo indica come eghèneto non il principio quindi, ma ciò che da questo per prima appare.
^George M. A. Hanfmann, nell'Oxford Classica Dictionary (Oxford University Press, 1970, in italiano Dizionario delle antichità classiche Cinisello Balsamo, Paoline, 1995, pag.849) nota il collegamento tra questo passo esiodeo e il precedente omerico.
^Nota George M. A. Hanfmann, nell'Oxford Classica Dictionary (Oxford University Press, 1970, in italiano Dizionario delle antichità classiche Cinisello Balsamo, Paoline, 1995, pag.849) come molti studiosi ritengano che in realtà Eros non si limiti ad accompagnare Afrodite, ma può accompagnare qualsivoglia altra divinità quando ciò concerne episodi di amore.
^T. G. Rosenmeyer, Eros-erotes Phoenix 5 (1951): 12.
^T. G. Rosenmeyer, Eros-erotes Phoenix 5 (1951): 12-13.
^Cfr. Aristofane, La pace, 1334 e sgg.; riferimenti anche in Euripide Le troiane, 310-325; e in Pindaro Framm. 128c 7-8; Catullo LXI 4 e LXII 5: a Roma gli corrispondeva il dio Talassio.
^L'anima incarnata nella materia ricorda la bellezza divina quando incontra la bellezza terrena da cui è attratta per la sua ultima natura celeste: in tal senso vanno intesi i "dardi intellettivi". Quindi allo stesso modo di Afrodite celeste (l'Anima universale) che si volge al Nous, le anime colpite dai "dardi intellettivi" si sollevano a contemplare il Bene.
^L'amore intellettivo dell'anima individuale corrisponde all'amore dell'Anima universale (Afrodite celeste); ma quando l'amore dell'anima individuale è stimolato dall'Anima del mondo (Afrodite terrena) esso si rivolge ai piaceri sensibili che tuttavia procurano il succedersi delle generazioni, in tal senso va inteso il richiamo ai "salutari consigli del padre".
^Cfr. il sistema dei pianeti in Cicerone Somnium Scipionis, IV.
Mary Carol Sturgeon, Sculpture: the reliefs from the theater, ASCSA, 1977, ISBN978-0-87661-092-3.
Derek Collins, Magic in the Ancient Greek World, 2008, Blackwell Pub., ISBN978-1-4051-3238-1.
Nancy Sorkin Rabinowitz e Auanger, Lisa, Among women: from the homosocial to the homoerotic in the ancient world, University of Texas Press, 2002, ISBN978-0-292-77113-0.
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