Ermeneutica del Concilio Vaticano IIPer ermeneutica del Concilio Vaticano II si intendono le diverse interpretazioni del Concilio date dai teologi e dagli storici nel periodo successivo al Concilio. Interpretare il ConcilioA differenza degli altri Concili, il Vaticano II pone un problema di interpretazione. Questa particolarità può essere fatta derivare dall'intendimento stesso del Concilio che non fu di definire «un punto o l'altro di dottrina e disciplina» ma di «rimettere in valore e in splendore la sostanza del pensare e del vivere umano e cristiano».[1]. A quest'intendimento seguì una mancanza di definizioni dogmatiche, da cui è sorto un dibattito sulla natura dei documenti e sulla loro applicazione.[2] Tutti i Concili ecumenici hanno avuto i loro storici che hanno contribuito a fornire un'interpretazione partendo dalla loro visuale[3], tuttavia solo per il Concilio Vaticano II si sono affrontate due ermeneutiche contrarie.[4] Secondo alcuni critici la presenza di ermeneutiche contrapposte può essere imputata ad un'ambiguità o ambivalenza dei documenti conciliari.[4] Ermeneutica della continuitàSecondo l'ermeneutica della continuità il Concilio Vaticano II va interpretato alla luce e in continuità con il magistero della Chiesa precedente e successivo al Concilio ovvero alla luce della Tradizione.[5][6] Già papa Paolo VI nel 1966, ad un anno dalla chiusura del Concilio, evidenziò due tendenze interpretative considerate errate: «E [...] sembra a Noi doversi evitare due possibili errori: primo quello di supporre che il Concilio Ecumenico Vaticano Secondo rappresenti una rottura con la tradizione dottrinale e disciplinare che lo precede, quasi ch'esso sia tale novità da doversi paragonare ad una sconvolgente scoperta, ad una soggettiva emancipazione, che autorizzi il distacco, quasi una pseudo-liberazione, da quanto fino a ieri la Chiesa ha con autorità insegnato e professato [...] E altro errore, contrario alla fedeltà che dobbiamo al Concilio, sarebbe quello di disconoscere l'immensa ricchezza di insegnamenti e la provvidenziale fecondità rinnovatrice che dal Concilio stesso ci viene» L'ermeneutica della continuità ha ispirato il pontificato di papa Giovanni Paolo II[8] ed è stata formulata esplicitamente da papa Benedetto XVI il 22 dicembre 2005: «Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un'interpretazione che vorrei chiamare "ermeneutica della discontinuità e della rottura"; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall'altra parte c'è l'"ermeneutica della riforma", del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino.» Altre volte Benedetto XVI è tornato sulla stessa questione[9][10], sottolineando l'importanza che il Concilio Vaticano II sia recepito alla luce di tutto il bagaglio dottrinale della Chiesa[11] I principali studiosi che sostengono l'ermeneutica della continuità sono i cardinali Walter Brandmüller, presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, Avery Robert Dulles e Francis Eugene George, l'arcivescovo Agostino Marchetto, il vescovo domenicano Charles Morerod e il filosofo del diritto Francis Russell Hittinger.[12] Una critica all'ermeneutica della continuità ne contesta l'impostazione teologica più che storica, con la presunta conseguenza di togliere importanza al Concilio considerato come evento.[13][14] Ermeneutica della discontinuitàL'ermeneutica della discontinuità tende a dare valore al Concilio in quanto evento, anche in considerazione di alcune caratteristiche particolari del Vaticano II: l'assenza di uno scopo storico determinato, il rigetto degli schemi preparatori, l'elaborazione assembleare dei documenti e anche la percezione del Concilio come evento cruciale da parte dell'opinione pubblica. Questa ermeneutica mira a valorizzare non soltanto i documenti approvati dal Concilio, ma anche i dibattiti interni all'assemblea e la percezione del Concilio all'esterno, da parte dei fedeli.[15] I sostenitori dell'ermeneutica della discontinuità sono rappresentati dalla cosiddetta "scuola di Bologna" diretta da Giuseppe Alberigo, un allievo di Giuseppe Dossetti, autore di una "Storia del Concilio Vaticano II" in cinque volumi. Alla scuola di Bologna appartengono anche Giuseppe Ruggieri, Maria Teresa Fattori e Alberto Melloni. Fuori dall'Italia quest'impostazione è sostenuta da Yves Chiron, David Berger, John O'Malley, Gilles Routhier e Cristoph Theobald.[16] Sostengono l'ermeneutica della discontinuità, accompagnandola ad una serrata critica al Concilio, anche molti gruppi tradizionalisti, come la Fraternità sacerdotale San Pio X, e alcuni studiosi come il filosofo Romano Amerio[17]. Nel 2010 lo storico Roberto de Mattei è intervenuto nel dibattito con il libro Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, in cui, senza entrare nel merito della discussione teologica, sostiene sul piano storico l'impossibilità di separare il Concilio dagli abusi postconciliari, isolando questi ultimi come una patologia sviluppatasi su un corpo sano[18]. Benedetto XVI, pochi mesi dopo la sua elezione a Papa, espresse una severa critica dell'ermeneutica della discontinuità: «L'ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l'unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l'intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta, del Concilio. In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito.» Note
Bibliografia
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