Sociedad Nacional de Agricultura
La Sociedad Nacional de Agricultura è il soggetto che riunisce gli operatori e le organizzazioni collettive del settore agricolo e agroindustriale cileno. Fondata nel 1838, è la più antica associazione del Cile.[1] Il suo obbiettivo è quello di rappresentare gli agricoltori per tutelarne gli interessi comuni, promuvere politiche pubbliche per lo sviluppo del settore, dare impulso alla formazione del capitale umano e favorire la nascita di relazioni lavorative virtuose. StoriaL'associazione fu fondata il 18 maggio 1838 e trovò in José Miguel de la Barra (1799-1858) uno dei suoi più importanti promotori. Dopo aver soggiornato a Londra e a Parigi espose ad Andrés Bello e a Manuel de Salas la propria idea di dar vita a un'organizzazione che rappresentasse gli interessi economici delle imprese agricole cilene nei confronti dello Stato. Considerata come il gruppo di interesse più antico e più influente della Repubblica del Cile, la Sociedad Nacional de Agricultura fu istituita con l'obbiettivo di promuovere la razionalizzazione, lo sviluppo e la tutela dell'agricoltura e delle attività agroindustriali correlate".[2] La maggioranza dei membri del suo consiglio direttivo erano grandi latifondisti e proprietari terrieri che assunsero incarichi politici col Partito Liberale e Conservatore, e, in misura minore, anche col Partito Radicale. Ventinove membri del direttivo arrivarono a ricoprire il ruolo di Ministro dell'Agricoltura; uno di essi, Ramón Barros Luco divenne Presidente della Repubblica del Cile, in carica dal 1910 al 1915. Da 1930 al 1961, i membri del direttivo si dedicarono principalmente alla politica e agli affari economici, mentre una minima parte di essi fu realmente impegnata in un'attività imprenditoriale di tipo agricolo.[2] CronologiaLe principali tappe storiche dell'associazione nella vita del Cile possono essere riassunte nella seguente cronologia:
Antonio García Reyes e Benjamín Vicuña Mackenna si erano avvicendati nella ruolo di Segretario Generale.
Lo sviluppo nel dopoguerraLe elezioni parlamentari del 1953 videro un forte ridimensionamento del consenso a favore dei partiti che da anni si alternavano al governo (radicali, conservatori e liberali) a favore dell'ascesa di Carlos Ibáñez del Campo, che propugnò il ritorno a un intervento diretto, diffuso e pervasivo dello Stato nell'economia, mediante l'opposizione al regime latifondista e al modello della locazione patriarcale della proprietà terriera, la tutela del lavoro col salario minimo garantito e l'amministrazione dei prezzi finali. Queste riforme del settore agroindustriale furono introdotte da Ibáñez durante il sesto decennio del XX secolo. Le idee e le proposte politiche della SNA si possono desumere dagli editoriali pubblicati da El Campesino, organo ufficiale dell'associazione.[2] Nel 1953, la SNA sostenne che la politica ibanista aveva ostacolato il miglioramento della produttività agricola, dell'offerta di mercato e del tenore di vita medio dei cileni. L'associazione criticò l'assenza di investimenti di rilievo nell'ammodernamento e nella meccanizzazione delle imprese, nella formazione, ovvero una politica protezionistica di dazi e dogane utile per arginare l'importazione di merci straniere. Il principale intervento statale chiesto dalla SNA e disatteso dal presidente fu quello di garantire un'effettiva parità di trattamento fra produttori esteri e nazionali.[2] Il presidente cileno intendeva riformare il modello della locazione patriarcale che consisteva in una sorta di patto non scritto fra proprietari e fittavoli (o mezzadri) perché, alla morte di questi ultimi, la terra fosse riaffidata ai loro figli. Secondo la SNA, questo meccanismo storico di trasmissione del sapere agrario e della terra da coltivare aveva reso possibile «la difesa comune del suolo e della vita», facendo prosperare un'intera società.[2] La SNA riteneva che in un Paese così diversificato socialmente, qualsiasi mutamento radicale e repentino avrebbe destabilizzato il settore agricolo e creato sfiducia nelle masse, mettendo a rischio investimenti e impegno individuale nel lungo termine. Questo era ritenuto vero in misura maggiore per un progetto che era privo di un passato storico, di una base scientifica presente e di una programmazione futura.[2] L'introduzione del diritto al salario minimo completò quel processo di alienazione del contadino rispetto al proprio lavoro, che era già stato avviato con il superamento del modello del latifondismo patriarcale. La legge fu criticata perché andava a impattare in negativo la quota di cottimo, determinando un crollo della produttività agricola e della disponibilità di prodotti alimentari, in un momento di grave difficoltà economica per il Paese.[2] Veniva a mancare un elemento di retribuzione che accomunava gli interessi personali di datori e lavoratori, il cui riconoscimento - su base volontaria dell'impresa e non come diritto previsto per legge - stava a fondamento di un legame affettivo dei braccianti e degli agricoltori nei confronti della terra e dei suoi proprietari. L'insicurezza del posto di lavoro e la disaffezione per la terra di residenza avrebbero favorito una condotta di lavoro molto meno responsabile e di pari passo più propensa al nomadismo.[2] Nel 1956, la SNA chiese al governo di sedersi intorno a un tavolo tecnico per la fissazione del prezzo del grano. L'associazione sosteneva che l'amministrazione politica dei prezzi «senza alcun rapporto con il costo di produzione o con il livello dei prezzi internazionali» avrebbe finito col deprimere la produzione e l'offerta di beni edibili.[2] Più che l'amministrazione politica dei prezzi, l'SNA contestava il fatto che il governo non avesse interpellato gli operatori di settore, assumendo delle decisioni per loro economicamente insostenibili. L'associazione chiese anche di non dimenticare il settore, unendo alla politica industriale esistente una legge di riforma agraria che democratizzasse l'accesso alla proprietà terriera, nonché una politica "tecnica" tesa all'incremento della produttività agricola.[2] Nella seconda metà degli anni cinquanta, la SNA criticò il fatto che il governo che si occupava di amministrare i prezzi, senza contingentare le quote di mercato, aprendo l'economia del Cile all'ingresso di una quantità illimitata di prodotti di importazione, realizzati in Paesi che erano caratterizzati da una struttura di costo e da un potere di acquisto della moneta del tutto differenti.[2] Tale prassi "a doppio binario" - interventista nel mercato interno e liberista con le imprese estere - avrebbe rischiato di portare i prezzi di equilibrio al di sotto del cosiddetto punto di fuga, vale a dire il livello minimo per il quale il prezzo riesce a pareggiare i costi variabili unitari, evitando una produzione in perdita e la scelta da parte degli imprenditori di chiudere o delocalizzare la propria attività. Note
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