Giulio Firmico MaternoGiulio Firmico Materno (in latino Iulius Firmicus Maternus; fl. 337–350) è stato uno scrittore e astrologo romano, in lingua latina, di età tardoimperiale. BiografiaDi lui restano pochissime notizie biografiche, per lo più desumibili dai suoi testi. Siciliano, secondo la sua stessa testimonianza,[1] Firmico fu senatore e per qualche tempo avvocato, ma abbandonò la professione per le inimicizie che la sua pratica gli procurò, sicché la successiva condizione di otium gli permise di dedicarsi agli studia humanitatis.[2] Pubblicò, così, le sue due opere conservatesi: i Matheseos libri octo e, circa dieci anni dopo, il De errore profanarum religionum.[3] OpereMatheseos libri octoL'opera, il cui titolo completo è De Nativitatibus sive Matheseos libri VIII, è dedicata al governatore della Campania, Quinto Flavio Mesio Egnazio Lolliano detto Mavorzio, e costituisce il più vasto trattato di astrologia conservatosi dall'antichità, frutto di esperienze e studi in campo neoplatonico. La sua datazione è controversa, con gli storici che la datano tra il 335[4] e il 337,[5] oppure successivamente al 355.[6] Il primo libro, a differenza degli altri sette di contenuto esclusivamente tecnico, contiene una vera e propria apologia morale dell'astrologia, scienza caduta in sospetto ai cristiani, ma ampiamente praticata al tempo dell'autore per influsso della speculazione neoplatonica. I restanti libri espongono diverse nozioni tecniche relative alla materia, con uno stile spesso compilatorio che però rende conto della sintesi di una lunga tradizione precedente.
De errore profanarum religionumL'opera è successiva alla conversione di Materno al Cristianesimo, avvenuta in circostanze di cui si ignorano causa, luogo e tempo, ma inequivocabilmente testimoniata dall'opera apologetica De errore profanarum religionum, scritta tra il 346 e il 350. Nella tradizione del testo,[8] l'opera è giunta priva delle pagine iniziali: la parte restante inizia passando in rassegna i culti naturalistici degli elementi dimostrandone l'assurdità.[9] Considera poi quei culti di origine orientale che erano allora molto praticati presso i pagani: i misteri di Iside, Cibele, Mitra, il culto dei Coribanti, di Adone e altri. Sono applicati i principi di Evemero per dimostrare che tutte queste divinità non sono altro che uomini innalzati dopo la morte agli onori celesti e dei cui peccati gli uomini si servono per giustificare i propri. Con alcune fantasiose etimologie (per esempio Serapide è fatto derivare da Σάρρας παίς, «il figlio di Sara», cioè Isacco) tenta di spiegare le origini di alcuni di esse a partire dai testi biblici; o ancora, egli dà notizie delle frasi e delle formule in codice usate nelle religioni misteriche, avvicinandole alle formule bibliche. Lingua, stile e fortunaLa lingua dell'autore aspira alla purezza del classicismo ma non si sottrae agli influssi del suo tempo, abusando spesso di espedienti retorici, enfasi e incursioni nella lingua poetica. L'uso delle clausole metriche lo ricollega alla tradizione oratoria ciceroniana. Lo stile dell'opera, in effetti, richiama da vicino quello degli africani Tertulliano e Arnobio, ricorrendo volentieri alla derisione e al sarcasmo. Dell'opera colpisce il fanatismo quasi feroce con cui l'autore esorta gli imperatori Costante I e Costanzo II a perseguitare senza pietà i seguaci delle fedi fallaci. Non è infatti frequente nella letteratura cristiana della prima metà del IV secolo, trovare un'esplicita richiesta volta a sollecitare l'intervento dello Stato contro i pagani, recuperando in un certo modo il disprezzo che i senatori avevano ai tempi della Repubblica per l'ellenizzazione della religione e della cultura romana (essendo Quinto Fabio Massimo Verrucoso il più conosciuto contro l'ellenizzazione, mentre i maggiori difensori di questa furono la gens Cornelia). Ricordiamo a tale proposito che il primo imperatore a mettere fuori legge tutti i riti non cristiani e a perseguitarli apertamente fu Teodosio I nel 392. In quest'opera si coglie anche quello che dovette essere lo stato d'animo formatosi in molti cristiani nel breve lasso di tempo intercorso tra le persecuzioni dioclezianee e l'editto di Milano.[10] Seppur Firmico appaia pienamente inserito nel filone della letteratura apologetica, la sua voce non giunse isolata al tempo dell'editto di Tessalonica promulgato da Teodosio I (391), ma nel corso del Medioevo rimase senza eco fin verso il XI secolo. La sua opera apologetica è considerata di particolare interesse per la storia delle religioni, riportando particolari di prima mano e plausibili sui culti misterici praticati in Sicilia in età tardoantica. Paradossalmente fu, invece, molto considerata la sua opera astrologica, la cui esaustività e leggibilità migliore rispetto all'opera di Marco Manilio giovarono alla trasmissione. Note
Bibliografia
Altri progetti
Collegamenti esterni
|