Questa è una lista di classici latini conservati dalla fondazione di Roma al 31 a.C., ossia antiche opere letterarie in lingua latina giunte fino a noi, per diverse vie.
Comprende sia opere integre sia opere incomplete o lacunose, di cui però si conservi un numero rilevante di parti. Le opere sono ripartite in sezioni secondo un ordine cronologico; all'interno delle singole sezioni sono elencate in ordine alfabetico.
Il motivo principale secondo cui la letteratura latina nacque solo cinquecento anni dopo la fondazione della città, risiederebbe nel fatto che Roma rimase per molti secoli un piccolo Stato agricolo, fondato su un'aristocrazia di piccoli proprietari terrieri in una società altamente militarizzata. Le continue guerre per il dominio di nuovi territori, mal si conciliava, infatti, con lo sviluppo della fantasia e la creatività letteraria. Il fatto poi che, sotto i Tarquini, Roma abbia avuto un periodo di relativo splendore ed espansione economico-commerciale, proprio perché erano sovrani etruschi, non favorì di certo una cultura latina originale.[1]
La letteratura latina poté, pertanto, nascere solo quando Roma ebbe il sopravvento sull'intera Italia peninsulare, e quindi su molte città della Magna Grecia, che furono inglobate insieme alla loro cultura ellenistica (vedi guerre pirriche). In effetti le forme della letteratura latina sono per la maggior parte derivate da quella greca. Ciò non significa che la letteratura latina non riuscì, col tempo, ad affermare una sua propria originalità, certamente partendo da una prima fase di imitazione di quanto i Greci erano riusciti a costruire in secoli della loro storia.[1][2]
Vero è anche che la letteratura latina fu influenzata non solo dai Greci del sud della penisola italica, ma anche dagli Etruschi (a nord), che dominarono Roma per almeno un secolo. Questi ultimi influenzarono enormemente la città latina, soprattutto nella concezione religiosa, ossessionati com'erano dal pensiero della morte, dall'oltretomba, immaginato con caratteri assai spaventosi, oltreché dall'arte degli aruspici e degli auguri.[3] Un episodio curioso viene raccontato da Floro, secondo il quale il re Tarquinio Prisco:
«[...] per avere prova [dall'augure Attio Nevio] se era possibile ciò che egli stesso aveva in mente. [L'augure] dopo aver esaminato la cosa in base ai presagi, rispose che lo era. «Eppure proprio ciò io avevo pensato se potevo tagliare quella roccia con il rasoio». L'augure Nevio replicò: «Tu lo puoi allora». E il re la tagliò. Da quel momento la funzione dell'augure divenne sacra per i Romani.»
(Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, I, 5.3-5.)
Dopo una fase preletteraria, identificata tradizionalmente con il periodo che va dalla fondazione di Roma (753 a.C.), al 240 a.C. con Livio Andronico si ebbe la nascita vera e propria di una letteratura latina a Roma. La letteratura latina poté, infatti, nascere solo quando Roma ebbe il sopravvento sull'intera Italia peninsulare, e quindi su molte città della Magna Grecia, che furono inglobate insieme alla loro cultura ellenistica (vedi guerre pirriche). In effetti le forme della letteratura latina sono per la maggior parte derivate da quella dei Greci. Non a caso il grande poeta Orazio descrive il momento storico di passaggio dall'età prelettararia a quella letteraria grazie all'influsso dei Greci, come segue:
(LA)
«Graecia capta ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio. sic horridus ille defluxit numerus saturnius, et grave virus munditiae pepulere, sed in longum tamen aevum manserunt hodieque manent vestigia ruris.»
(IT)
«La Grecia vinta conquistò il fiero vincitore [romano] e introdusse le arti nel Lazio agreste. Così quell'orrido verso saturnio scomparve e la finezza sostituì la pesante rozzezza; ma nel lungo scorrere del tempo rimasero, e ancora oggi restano, ricordi del carattere agreste.»
Rispetto a Nevio e Plauto fu artefice di una maggiore fedeltà agli originali greci, dei quali in molti casi non tradusse i titoli, a testimonianza della sempre maggiore ellenizzazione della cultura romana
Prima opera storiografica in lingua latina, che permettono tuttavia di conoscere quale fosse il contenuto generale dell'opera: dal mito troiano di Enea fino al 149 a.C.
Trattavano temi riguardanti i maggiori cicli mitici, come quello troiano (Armorum iudicium, Iliona, Niptra, Teucer, e Protesilaus), quello di Oreste (Chryses, Dulorestes, Hermiona), tebano (Antiope) e argonautico (Medus).
Didascalica (in cui propone riforme ortografiche), Pragmatica, Parerga, Praxidica, Annales (27 libri in esametri, più che di un poema epico si trattava di un calendario poetico), Sotadicorum liber
Il titolo deriva dalla parte che Cicerone espone in modo compiuto, dopo aver chiarito la suddivisione dell’ars rhetorica (inventio, dispositio, elocutio, memoria, pronuntiatio): l'inventio definisce l'individuazione di tutto ciò che serve all'oratore per sviluppare le sue argomentazioni
L'ingresso di Cicerone nella carriera forense avvenne ufficialmente nell'81 a.C. con la sua prima orazione pubblica, la Pro Quinctio, per una causa in cui ebbe come avversario il più celebre oratore del tempo, Quinto Ortensio Ortalo.
L'esordio di Cicerone nell'oratoria a carattere politico, almeno secondo le testimonianze scritte a noi disponibili, si ebbe con la Pro Roscio Amerino, molto concitata ed a tratti enfatica, che conserva molto di scolastico nello stile esuberante.[5][6] Qui Cicerone difese con successo un figlio ingiustamente accusato di parricidio, dimostrando grande coraggio nell'assumersene la difesa: il parricidio era considerato tra i crimini peggiori, e i veri colpevoli dell'omicidio erano sostenuti dal liberto di Silla, Lucio Cornelio Crisogono. Se Silla avesse voluto, sarebbe stato fin troppo facile eliminare Cicerone, proprio alla sua prima apparizione nei tribunali.
La morte di Silla è l'evento che sembra chiudere un'epoca storica per aprirne un'altra, inizialmente caratterizzata dalla brama di potere degli optimates che scatenò numerose reazioni in tutto il territorio sottomesso da Roma[7].
Fu un'epoca in cui si presentarono grandi novità, sia in ambito civile che letterario: i grandi modelli della letteratura e dell'arte greca, infatti, vennero assimilati e rielaborati in modo tale da essere adeguati alla sensibilità ed alla spiritualità del tempo: il contrasto tra vecchio e nuovo spesso si notò anche nello spirito e nell'opera di uno stesso autore.
Marco Terenzio Varrone detto Reatino (116 a.C.-27 a.C.), definito da Francesco Petrarca il terzo gran lume romano[9] e da Marco Fabio Quintilianovir Romanorum eruditissimus (l'uomo più erudito fra i romani), rappresentò il più grande consuntivo della civiltà romana tradizionale, basata sull'osservanza del mos maiorum; fu autore, inoltre, di un'analisi della società a lui contemporanea, intrisa di turbinose vicende politiche e di decadenza morale, nella sua opera più caratteristica, i 150 libri di Saturae Menippeae. Varrone fu un autore molto eclettico: le sue opere (circa 74 in 620 libri) sono raggruppabili in opere storiche ed antiquarie, opere di storia letteraria e linguistica, opere didascaliche, opere di creazione artistica; tuttavia, ci sono pervenuti solamente alcuni libri del De lingua latina e i tre libri del De re rustica.
Marco Tullio Cicerone (106 a.C.-43 a.C.), l'autore da cui prende nome questo periodo, fu una delle più complesse e ricche personalità del mondo romano, dominatore della cultura, del pensiero e dell'arte di un'epoca gloriosa[10]. Manifestò la difesa della tradizione politica e culturale dell'età precedente attingendo e rimodernando spunti e teorie da diversi campi della civiltà ellenica, con nuova ricchezza dei mezzi espressivi[11].
Considerato dai contemporanei il re del foro[12] e da Quintiliano l'exemplum (il modello) a cui si doveva ispirare chi studiava eloquenza[13], Cicerone, grazie alla sua notevole produzione letteraria (insieme a Varrone, l'autore più fecondo della romanità[14]), alla sua abilità nell'oratoria, alla sua espressione retorica ed al suo ideale di humanitas (basato su un'idea di cultura legata ai più autentici valori umani e sulla dignità della persona[15]), segnò un'orma incancellabile nella storia della lingua latina[16] e si propose come coscienza critica per l'uomo di ogni tempo[15].
Il filosofo e poeta latino si fa portavoce delle teorie epicuree riguardo alla realtà della natura e al ruolo dell'uomo in un universo atomistico, materialistico e meccanicistico. Si tratta di un richiamo alla responsabilità personale, e di un incitamento al genere umano affinché prenda coscienza della realtà, nella quale gli uomini sin dalla nascita sono vittime di passioni che non riescono a comprendere.
Furono elaborate in occasione di una causa di diritto penale discussa a Roma, che vedeva come accusatori il popolo della ricca provincia di Sicilia e l'ex propretore dell'isola Gaio Licinio Verre come imputato. L’accusa mossa nei suoi confronti era de pecuniis repetundis, cioè di concussione, reato consumato durante il triennio di governo dal 73 al 71 a.C.. I siciliani, che avevano conosciuto poco tempo prima Cicerone come questore di Lilibeo, gli affidarono l'accusa.
Si tratta di un discorso giudiziario pronunciato nel 71 a.C. dall'oratore romanoMarco Tullio Cicerone. Dopo aver esercitato la questura in Sicilia presso Lilibeo nel 75 a.C., Cicerone, avendo compreso che il successo politico dipendeva dall'attività nell'Urbe, pronunciò numerose orazioni giudiziarie in modo da aumentare la sua fama.[17]
Orazione pronunciata per il querelante in un processo civile per un'azione di rivendicazione. Il fondamento giuridico è l'interdetto de vi armata (rimedio del possessore contro lo spossessamento violento). Sostenitore della parte avversa è Gaio Calpurnio Pisone; entrambe le parti fanno ricorso manifestamente all'autorevolezza del giurista Gaio Aquilio Gallo.
Orazione pronunciata dinanzi al tribunale penale competente per i crimini di veneficio ("quaestio de sicariis et veneficis"). È tra le più lunghe e complesse orazioni ciceroniane pervenuteci e verosimilmente non fu pronunciata in un'unica udienza; si ritiene inoltre che essa sia stata in un primo momento appuntata e che solo più tardi l'autore abbia rivisto il testo, prima della sua diffusione.[18]
Orazione di carattere politico pronunciata di fronte al popolo in occasione dell'attribuzione, effettuata su proposta del tribuno della plebeGaio Manilio, a Gneo Pompeo di poteri speciali per la conduzione di una campagna militare contro il re del PontoMitridate VI.
Orazioni contro Lucio Sergio Catilina: i discorsi del 7 e dell'8 novembre 63 a.C. pronunciati di fronte al Senato (I) e al popolo (II); i discorsi della scoperta e della condanna dei seguaci di Catilina, del 3 dicembre di fronte al popolo (III) e del 5 dicembre di fronte al Senato (IV).
La prima parte (1-60), detta nugae (termine che significa "sciocchezze"), raccoglie carmi brevi scritti in metro vario, scazonti e saffici; La seconda parte (61-68), detta carmina docta, contiene elegie, epitalami e poemetti più lunghi ed impegnativi secondo il gusto erudito della poesia alessandrina; La terza parte (69-116) è composta dagli epigràmmata, ossia da epigrammi in distici elegiaci.
Cesare descrisse minuziosamente la conquista della Gallia, inserendo nella narrazione molte curiosità sugli usi e sui costumi delle tribù barbariche con cui veniva a contatto (Elvezi, Galli e Germani), difendendo il proprio operato. Non si può forse ritenerla un'opera rigorosamente storica, poiché in parte autobiografica.
In questa arringa, De domo sua ad pontifices ("Sulla propria casa, al collegio pontificale" 57 a.C.), Cicerone chiede di riavere l'area e i fondi per ricostruire la sua casa, confiscatagli durante l'esilio e con una parte delle proprietà del Palatino consacrata alla dea Libertas; egli dichiara questa consacrazione invalida per ottenerne la restituzione contro Publio Clodio Pulcro.
Il tema dell'orazione è un responso emesso dagli aruspici in quello stesso anno, di cui si era servito Publio Clodio Pulcro, all'epoca edile curule, per accusare Cicerone di sacrilegio e costringerlo a rinunciare alla sua casa sul Palatino, oggetto di una lunga contesa tra i due. Nell'orazione Cicerone si difende, assicurandosi il possesso della casa, e ritorce l'accusa contro lo stesso Clodio, dichiarandolo sacrilego e nemico della Repubblica.
L'oratore difende il tribuno della plebe Sestio. Questo era accusato di aver organizzato delle bande armate (de vi)) da opporre a quelle di Clodio per favorire il rientro in patria di Cicerone.
Opera dedicata a Cicerone, in cui Giulio Cesare si occupava di questioni linguistiche. Solo un piccolo numero di frammenti è oggi conservato. Svetonio racconta che Cesare scrisse il De analogia mentre, insieme al suo esercito, attraversava le Alpi.
Orazione difensiva nei confronti di Gaio Rabirio Postumo, pronunciata nella fase pregiudiziale del processo contro Aulo Gabinio a causa di concussione nelle province. Verte attorno alla presenza di "bustarelle" in connessione con la reintegrazione al trono d'Egitto di Tolomeo XII Aulete.
Orazione difensiva, originariamente diversa dalla versione pubblicata, non sortì il proprio effetto in quanto la curia era assediata dai fedeli della fazione clodiana. Dopo l'esilio di Tito Annio Milone subirà profonde modifiche per essere pubblicata quale ci è pervenuta: la più bella orazione di Cicerone. Contiene tra l'altro la celebre citazione "Inter arma enim silent leges"
Si ispira all'omonima opera di Platone. Cicerone aderisce alla dottrina stoica secondo la quale le leggi non sono il frutto di semplici convinzioni, ma hanno il loro fondamento nel Diritto naturale, basato sulla ragione innata di tutti gli uomini. Quest'opera era stata concepita in difesa delle vecchie leggi costituzionali, interpretate con spirito rigidamente conservatore, dove ogni legge ed ogni istituzione era giustificata, mirando a mantenere il potere nelle mani della classe dirigente.
Le due Epistulae ad Caesarem senem de re publica, rispecchiano le idee e lo stile di Sallustio (la prima, che sarebbe stata scritta nel 46 a.C. suggerisce al dittatore l'esercizio della clemenza; la seconda, del 50 a.C. circa, è l'esposizione di un programma politico collegato ai populares)[19] e l'Invectiva in Ciceronem, considerata autentica da Quintiliano,[20] ma che è probabilmente opera di un retore d'età augustea, come le altre opere spurie che sono tutte, verosimilmente, esercitazioni scolastiche di età successiva.[21]
Teoremi di spiegazione dei paradossi etici della scuola degli stoici. Si tratta di esercitazioni di casistica oratoria, spesso giudicate di basso livello dalla critica.
I temi, usati anche nell'Orator, vertono sulla questione delle idee di due correnti di retori riguardo al miglior modo di amministrare l'oratoria: gli atticisti e gli asiani.
Dialogo tra Cicerone e il figlio Marco, che chiede al padre di esporgli i principi basilari dell'arte retorica, vale a dire: la partizione dei tre generi dell'eloquenza (deliberativum, iudiciale, demonstrativum), quella interna alle singole orazioni (exordium, narratio, argumentatio e peroratio) e la suddivisione delle fasi della composizione di un'orazione (inventio, dispositio, elocutio, memoria e actio).
Dedicata a Marco Giunio Bruto, questo trattato faceva parte di una trilogia, assieme al De oratore e al Brutus, incentrata sul tema della ricerca del perfetto oratore.
Cicerone si pone il problema di cosa sia il sommo bene, tenendo in considerazione le due filosofie antiche stoica ed epicurea che, rispettivamente, lo classificavano come virtù e piacere.
Composte sotto la dittatura di Cesare, quando Catone Uticense era già stato costretto al suicidio e la repubblica aveva praticamente cessato di esistere. Il dittatore si era dimostrato clemente, ma aveva dato a intendere agli intellettuali che non avrebbe accettato una loro "insubordinazione": a Cicerone, che aveva scritto un libro in memoria di Catone, Cesare aveva risposto con l'Anticato ("Anticatone"), in cui criticava l'illustre morto, mostrando quale sarebbe stato il suo atteggiamento verso gli oppositori.
Cesare aveva risposto con l'Anticato ("Anticatone"), a Cicerone, che aveva scritto un libro in memoria di Catone. Il dittatore criticava l'illustre morto, mostrando quale sarebbe stato il suo atteggiamento verso gli oppositori.
Fu scritto poco prima della morte di Cesare ed inviato a Bruto. Cicerone orchestra una conversazione tra un epicureo, Velleio, uno stoico, Balbo, ed un accademico, Cotta, che espongono e discutono le opinioni dei vecchi filosofi sugli dei e sulla Provvidenza.
Cicerone immagina Catone il Censore all'età di 84 anni ed esprime la sua nostalgia del buon tempo antico, quando a Roma l'uomo politico eminente poteva mantenere prestigio e autorevolezza fino alla più tarda età.
Quest'opera, probabilmente la più originale tra tutte quelle composte da Cicerone, mette in luce un'opinione molto esplicita sulla fiducia che bisogna riporre nell'arte aruspicina. Sebbene discuta anche delle opinioni stoiche al riguardo, si nota che Cicerone tratta gli argomenti con la dimestichezza di chi ha potuto osservare da vicino il funzionamento della religione romana (nelle vesti di augure), e può trarne un lucido giudizio, che non può non essere negativo. Da quest'opera e dal terzo libro del De natura deorum i primi cristiani attinsero argomenti per combattere il politeismo.
Scritti nel corso del viaggio in Grecia, su sollecitazione dell'amico Trebazio, trattano della dottrina dell'inventatio divulgata da Aristotele, ovvero l'arte di saper trovare gli argomenti. In questa produzione retorica vengono considerati i luoghi (topoi) come ottimo spunto per ogni genere di argomento ed utilizzabili per qualunque disciplina (poesia, politica, retorica, filosofia, ecc.)
Il De officiis è l'ultima opera filosofica di Cicerone, dedicata al figlio Marco che si trovava ad Atene. L'opera, ispirata ad un lavoro dello stoico Panezio, è divisa in tre libri: il primo tratta di ciò che è onesto, il secondo di ciò che utile, ed il terzo traccia una comparazione tra utile ed onesto. Nell'opera, Cicerone non fornisce profonde spiegazioni con rigore scientifico, ma enuncia una serie di ottimi precetti, indispensabili per fare di un uomo un buon cittadino romano, ligio ai suoi doveri e dunque in grado di vivere nell'ottica della virtus.
Cicerone parla delle imprese del console Gaio Mario. L'opera è importante per il passaggio dell'autore dal genere alessandrino a quello storico mescolato alla poesia, cioè epico.
Sono le orazioni pronunciate contro Marco Antonio dal 2 settembre del 44 a.C. al 21 aprile del 43 a.C., ad eccezione della II Filippica, immaginata come pronunciata in senato, in risposta agli sprezzanti attacchi di Antonio nei suoi riguardi, durante l'assemblea del 19 settembre (a cui Cicerone non partecipò). Questa orazione di Cicerone, accuratamente preparata nella sua villa a Pozzuoli, poi inviata all'amico Attico, ma mai pronunciata, venne presumibilmente fatta circolare negli ambienti politici romani prima del 20 dicembre 44, giorno in cui la III e la IV Filippica vennero presentate rispettivamente in senato e davanti al popolo.
L'opera narra la congiura ordita da Lucio Sergio Catilina nel 63 a.C., nel tentativo, rivelatosi poi fallimentare e costatogli la vita, di instaurare una dittaturapopulista e antinobiliare (in nobilitas) a Roma. La congiura catilinaria viene vista dallo storico di Amiternum come uno degli argomenti più significativi della decadenza morale e sociale della classe dirigente romana (specie dei senatori) durante il I secolo a.C., una corruzione che egli denuncia e critica severamente lungo tutta la narrazione.
L'opera narra la congiura ordita da Lucio Sergio Catilina nel 63 a.C., nel tentativo, rivelatosi poi fallimentare e costatogli la vita, di instaurare una dittaturapopulista e antinobiliare a Roma. La congiura catilinaria viene vista dallo storico di Amiternum come uno degli argomenti più significativi della decadenza morale e sociale della classe dirigente romana (specie dei senatori) durante il I secolo a.C., una corruzione che egli denuncia e critica severamente lungo tutta la narrazione.
Composte dopo le due monografie, il De Catilinae coniuratione ed il Bellum Iugurthinum, mostrano l'intento di Sallustio di narrare, secondo una scansione per annum, la storia. L'opera è però incompleta; ne restano infatti solo dei frammenti, comunque significativi, assieme ad una silloge di quattro discorsi e di due lettere, tramandati dall'uso che se ne fece nelle scuole di retorica: ciò consente, almeno in parte, di ricostruirne la struttura complessiva.
Sono una raccolta di dieci componimenti detti "ecloghe" di stile perlopiù bucolico e che seguono il modello del poeta siciliano Teocrito.[22] Il termine "Bucoliche" deriva dal greco Βουκολικά (da βουκόλος = pastore, mandriano, bovaro); sono state definite anche ἐκλογαί, ecloghe, ovvero "poesie scelte". Esse furono il primo frutto della poesia di Virgilio, ma, nello stesso tempo, possono essere considerate la trasformazione in linguaggio poetico dei precetti di vita appresi dalla scuola epicurea di Napoli.
L'autore ha utilizzato il modello del dialogo aristotelico, che elogia l'agricoltura nelle sue varie forme, da un punto di vista economico ma anche per il piacere ricavabile da essa.
Scritte in esametri ed articolate in argomenti letterario–programmatici, che vanno dal proemio al commiato, a riflessioni sull'incontentabilità umana e l'avarizia, espressioni contro l'adulterio, financo a un diario di viaggio, un ripensamento della propria condizione sociale e un resoconto dei rapporti con Mecenate, al quale fu dedicato il primo libro (pubblicato nel 35 a.C.).
AA.VV. "La letteratura latina della Cambridge University", trad. italiana di Laura Simonini (due voll.), Mondadori 2007.
Gian Biagio Conte - Emilio Pianezzola, Storia e testi della letteratura latina (tre voll.), Le Monnier 1995.
William Beare, I Romani a teatro, traduzione di Mario De Nonno, Roma-Bari, Laterza, gennaio 2008 [1986], ISBN978-88-420-2712-6.
Gian Biagio Conte, Nevio, in Letteratura latina - Manuale storico dalle origini alla fine dell'impero romano, 13ª ed., Le Monnier, 2009 [1987], ISBN88-00-42156-3.
Hermann Hagan, Heinrich Keil, Grammatici latini, Teubner 1859
Karl Halm, Rhetores latini minores, Teubner 1863
Concetto Marchesi, Storia della letteratura latina, 8ª ed., Milano, Principato, ottobre 1986 [1927].
Ettore Paratore, Storia della letteratura latina, Firenze, Sansoni, 1979.
Luciano Perelli, Storia della letteratura latina, 1969, ISBN 88-395-0255-6, Paravia.