Aitareya Upaniṣad
La Aitareya Upaniṣad ("Upaniṣad di Aitareya"[1]), appartenente al ciclo del Ṛgveda, è una fra le più antiche delle Upaniṣad vediche. GeneralitàLa Aitareya Upaniṣad è costituita dai canti (adhyāya) IV, V e VI del secondo libro dell'Aitareya Āraṇyaka. Di estensione breve, è usualmente suddivisa in cinque parti (khaṇḍa)[2], per un totale di 33 strofe (mantra). La lingua in cui è scritta, arcaica, e il tema principale dell'opera, la corrispondenza fra universo e uomo, fanno concludere a molti orientalisti che questa upaniṣad possa essere contemporanea ai primi due canti della Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, che cioè sia una delle più antiche[3], composta quindi prima dell'VIII secolo BCE. Il ṛṣi, il veggente cioè, che è ritenuto essere l'autore dell'opera, Mahidāsa Aitareya (e dal quale il nome), è citato nella Chāndogya Upaniṣad, III, 16, 7, dove si dice che egli visse centosedici anni[4]. In realtà, di tale veggente null'altra notizia è nota, ragion per cui l'attribuizione è da considerarsi di natura mitica. Suddivisione e contenutiIl primo khaṇḍa riprende il mito dell'"uomo cosmico" con una significativa differenza: questi è generato dall'ātman. In principio infatti esisteva soltanto l'ātman-brahman, Egli quindi creò cielo, luce, morte e acque, quindi l'essere universale (puruṣa), e lo covò. Dalle parti del corpo di questo essere derivarono sia gli elementi (e quindi gli dèi relativi) sia le funzioni. Per esempio, dagli occhi venne la vista (funzione) e dalla vista il Sole (come elemento del cosmo e come dio).[5] Nel secondo khaṇḍa gli dèi appena generati chiedono all'ātman un posto ove prendere dimora per potersi cibare. Dopo aver rifiutato l'offerta della vacca e del cavallo, gli elementi-dèi accettano di dimorare in un essere umano: soltanto così le facoltà poterono diventare attive (nell'esempio precedente: il dio-Sole entrò negli occhi dell'uomo e gli diede la vista). La dimora, il corpo dell'uomo, è quindi sede delle percezioni sensoriali, i sensi si alimentano dell'esperienza, e ciò è possibile perché sussiste una corrispondenza di natura cosmica fra i sensi umani e gli elementi.[5] Gli dèi rifiutano gli animali e accettano l'uomo poiché questi è simile al puruṣa, all'"uomo cosmico".[6] Gli dèi, presa dimora nell'uomo, chiedono quindi cibo, e siamo nel terzo khaṇḍa; l'ātman ne offre loro, ma soltanto quando entra in gioco il "soffio vitale" (prāṇa) essi divengono capaci di assimilarlo. Il prāṇa è quindi quel principio che unifica le funzioni nell'uomo, ciò che rende possibile l'esperienza del mondo.[5] A questo punto, visto che l'essere creato sembra essere indipendente, l'ātman si domanda: «Se la parola è creata dall'organo vocale, se l'odore dall'organo dell'olfatto, se la visione lo è dall'organo della vista [...], se l'emissione del seme lo è dall'apparato genitale, allora chi sono io?» L'impasse è risolto dall'instaurarsi dell'ātman nell'uomo attraverso un'apertura sulla sommità del cranio, che quindi assurge a luogo di congiunzione fra l'umano e il divino. Questa "apertura" è nota come sahasrāracakra, il chakra dai mille petali, quel punto cioè che secondo lo Yoga è l'obiettivo della kundalini, il principio divino insito in ogni essere umano, che seguendo particolari discipline psicofisiche "risale" lungo il corpo dell'adepto per fuoriuscire dalla testa.[7] Il quarto khaṇḍa spiega come il sé individuale (jīva) trasmigri di corpo in corpo finché l'individuo non giunga a unire questo proprio sé con l'ātman, condizione assimilata all'immortalità.[8] Troviamo espresso infine, nell'ultimo khaṇḍa, uno dei risultati considerati notevoli nella letteratura upaniṣadica, un mahāvākya ("grande detto")[9]: (SA)
«prajñanaṁ brahma» (IT)
«la conoscenza è il brahman» L'ātman-brahman è quindi qui identificato con la gnosi (prajña), conclude l'orientalista Pio Filippani Ronconi, o, in altri termini, l'"essere" altro non è se non conoscenza.[5] Il teologo Raimon Panikkar traduce prajñana con "coscienza" e conclude che soltanto nel suo essere cosciente l'"essere" è, e che quindi si può ben sintetizzare: (SA)
«prajñanaṁ brahma» (IT)
«la coscienza è» La coscienza non è né una sostanza né un atto, e Brahman, l'"essere", non ha coscienza, è coscienza: «Gli uomini hanno coscienza, sono esseri coscienti, ma non sono (ancora?) coscienza e, tanto meno, pura coscienza. La sola coscienza che esiste è una coscienza che abbraccia tutto; è Brahman, che l'uomo non ha bisogno di temere o persino di amare e di cui non si deve preoccupare, perché questo regno ontico o meta-ontico è semplicemente lì.» Per l'orientalista Raphael la visione della conoscenza che traspare da questo mahāvākya è quella di una conoscenza catartica, quale si ritrova anche nelle tradizioni iniziatiche dell'antica Grecia. La conoscenza è dunque un mezzo per giungere all'Essere, ma: «L'Essere è al di là del soggetto conoscitore, della conoscenza e dello stesso conosciuto, oppure: Brahman è l'essenza di pura conoscenza.» L'Aitareya Upaniṣad si conclude con la medesima invocazione con la quale si era aperta, un'invocazione al pensiero, alla parola e al brahman. Note
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