Riferimento (linguistica)In linguistica e in filosofia del linguaggio, il riferimento (o referenza[1]) è il rapporto tra un segno (ivi compresa qualsiasi espressione linguistica) e il "referente" o "denotazione", cioè la realtà extralinguistica (non importa se contenuto mentale o oggetto concreto) che esso designa.[2][3][4] StoriaGià gli stoici avevano delineato la nozione. La suppositio medievale può essere intesa come una teoria del riferimento relativa ai sintagmi nominali.[2] In epoca moderna, il filosofo inglese John Stuart Mill (1806-1873), in A System of Logic: Ratiocinative and Inductive,[5] prima edizione del 1843, distinse tra termini connotativi e denotativi. I primi si riferiscono a ciò che designano in forza di un attributo relativo alla cosa designata: così 'bianco' si riferisce alle cose bianche per il tramite dell'attributo della bianchezza. I secondi designano direttamente la cosa designata (è il caso dei nomi propri).[2] Per il filosofo tedesco Gottlob Frege (1848-1925), anche nel caso dei nomi propri il riferimento risulta mediato: il senso di ogni espressione "contiene il modo in cui l'oggetto viene dato" (Senso e significato, Über Sinn und Bedeutung, 1892). Peraltro, secondo Frege, non ogni espressione sensata implica un riferimento.[2] Nel Novecento, il filosofo statunitense Saul Kripke ha criticato la posizione di Frege e, richiamandosi a Mill, ha affermato che esiste un rapporto diretto tra il nome proprio e il suo designato. Per Kripke come per il filosofo statunitense Hilary Putnam (1926-2016), il riferimento non è instaurato, nel nome proprio, da elementi descrittivi, ma da un atto di battesimo, che si trasmette tra i parlanti, ciascuno dei quali è attento a conformarsi ad un uso stabilito, con l'obbiettivo di garantire la catena di interazioni reali con l'interlocutore.[2] NoteBibliografia
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