Lucy SalaniLucy Salani (Fossano, 12 agosto 1924 – Bologna, 22 marzo 2023[1]) è stata un'attivista italiana, nota per essere stata l'unica donna transgender italiana sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti. Lucy Salani era nata come Luciano Salani[2], crescendo a Bologna come uomo omosessuale. Dopo aver disertato all'esercito nazista, fu deportata a Dachau nel 1944, dove rimase per sei mesi, fino alla liberazione del campo per opera degli americani nel 1945. In seguito, visse a Torino, lavorando come tappezziera e frequentando l'ambiente transgender italiano e parigino. Di ritorno a Bologna negli anni '80, vi si stabilì dopo la pensione. La sua storia è diventata nota negli anni dopo il 2010, grazie al lavoro della scrittrice e regista Gabriella Romano, che le ha dedicato due opere. Salani è considerata dal Movimento Identità Trans l'unica persona transgender italiana ad essere sopravvissuta alle persecuzioni naziste. BiografiaGiovinezza sotto il fascismoLucy Salani nacque nel 1924 a Fossano, comune piemontese, due anni dopo l'arrivo al potere di Benito Mussolini.[3] La famiglia, d'origine emiliana, era antifascista.[4] Negli anni seguenti, Salani si trasferì con la famiglia a Bologna.[3][5] Percepita come un "ragazzo differente", Salani fu rifiutata dal padre e dai fratelli.[6][7] Sotto le minacce dei fascisti, dovette tenere nascoste le sue relazioni omosessuali.[4] Seconda guerra mondialeRichiamata in servizio dall'esercito italiano nell'agosto del 1943, Lucy Salani cercò di scamparne dichiarandosi omosessuale, senza riuscirci.[3][8] Fu quindi mandata a Cormons, in artiglieria.[8] Disertò poco dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943,[3] tornando a Bologna e ritrovando i propri genitori sfollati a Mirandola.[8] Temendoli in pericolo a causa della propria diserzione, abbandonò la clandestinità e, costretta a unirsi ai fascisti o ai tedeschi, si unì all'esercito nazista a Suviana,[9] dove venne destinata alla lotta antiaerea.[4] Riuscì a disertare anche l'esercito nazista,[3] buttandosi nell'acqua gelida e scappando dall'ospedale di Bologna in cui era stata ricoverata per una conseguente polmonite.[9] Successivamente, visse a Bologna come prostituta, avendo come clienti diversi ufficiali tedeschi.[9] Durante uno di questi incontri, la polizia fece irruzione nell'albergo in cui si trovava con uno di questi e la fermò, scoprendo così della sua diserzione.[10] Successivamente, fu rinchiusa nella cantina di un casolare nei pressi di Padova, dalla quale era riuscita a scappare grazie a una serratura difettosa, per poi essere ricatturata poco dopo a Mirandola.[10] A questo punto, dopo una permanenza nel carcere di Bologna e in quello di Modena, venne portata a Verona per essere processata dai tedeschi.[10] Condannata a morte, chiese la grazia ad Albert Kesselring, riuscendo a ottenerla: la condanna fu tramutata in lavori forzati in un campo di lavoro a Bernau, nella Germania meridionale, dove venivano fabbricati componenti dei razzi V1 e V2.[3][4][7][10] Anche dal campo di lavoro riuscì a scappare,[3] insieme a un altro prigioniero, rimasto successivamente ucciso dai tedeschi nel tentativo di fuga.[11] Arrivata in treno fino al confine tra l'Austria e l'Italia, venne qui scoperta e catturata.[3][11] Successivamente, fu deportata al campo di concentramento di Dachau, in quanto disertrice dell'esercito tedesco, e contrassegnata con il triangolo rosso, destinato a prigionieri politici e a chiunque avesse disertato l'esercito.[3][12][13][4] Sopravvisse per sei mesi nel campo, fino alla liberazione da parte delle truppe americane nell'aprile del 1945, quando aveva vent'anni.[12][6] Il giorno della Liberazione, sopravvisse anche a una fucilazione per opera dei nazisti, durante la quale fu ferita a un ginocchio[3][4][14]: i soldati americani la ritrovarono viva tra i cadaveri.[3][4] Vita nell'Italia liberataDopo la Liberazione, Lucy Salani si guadagnò da vivere come tappezziera, lavorando nel nord del paese, tra Roma e Torino.[3][4][15] Di passaggio a Parigi, frequentò l'ambiente trans e i cabaret delle travestite.[3][6] Lucy Salani si trasferì a Londra a metà degli anni '80 per sottoporsi a un'operazione di riattribuzione del sesso, rifiutando di cambiare il proprio nome all'anagrafe.[3][5][16][17] Pensione a BolognaLucy Salani ritornò a Bologna nel corso degli anni '80 per occuparsi dei genitori, trascorrendovi poi il resto della vita.[3][6] Alcuni giornali hanno riportato, alla fine degli anni 2010, la notizia secondo cui Lucy viveva isolata, senza famiglia e in povertà.[6][5][16] Ha ricevuto cure e visite dai volontari del Movimento Identità Trans.[16] Salani è morta nella notte fra il 21 e il 22 marzo 2023, all'età di novantotto anni.[3] RiconoscimentoLa storia di Lucy Salani è diventata nota grazie alla biografia scritta da Gabriella Romano, intitolata Il mio nome è Lucy. L'Italia del XX secolo nei ricordi di una transessuale, pubblicata nel 2009 da Donzelli Editore.[3][4][5][15] Due anni più tardi, Gabriella Romano ha realizzato anche il documentario Essere Lucy.[16] Il Movimento Identità Trans considera Lucy Salani la sola persona transessuale ad essere sopravvissuta, in Italia, alle persecuzioni nazifasciste e ai campi di concentramento.[3] Nel 2014 il regista Gianni Amelio ha intervistato Lucy Salani nel documentario Felice chi è diverso.[3] Quattro anni più tardi, è stata invitata al Giorno della Memoria organizzato da Arcigay e Arcilesbica.[12][16] In quell'occasione ha dichiarato: «È impossibile dimenticare e perdonare. Ancora alcune notti mi sogno le cose più orrende che ho visto e mi sembra di essere ancora lì dentro e per questo voglio che la gente sappia cosa succedeva nei campi di concentramento perché non accada più».[16] Nel novembre 2019, il presidente di Arcigay Roma, Francesco Angeli, ha chiesto al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che Lucy Salani fosse nominata senatrice a vita.[14][16] Tra il 2020 e il 2021, Matteo Botrugno e Daniele Coluccini hanno girato il film documentario C'è un soffio di vita soltanto, incentrato sulla vita di Lucy Salani.[3][18] Il film la segue, all'età di novantasei anni, nella sua vita di tutti i giorni a Bologna e in alcuni momenti a Dachau, dove era stata invitata per le celebrazioni del settantacinquesimo anniversario della liberazione del campo.[19][20] Il titolo del documentario è preso da un verso finale di una poesia scritta da Lucy stessa.[2] Filmografia
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