Grammatica sanscritaLa grammatica della lingua sanscrita possiede un complesso sistema verbale, un sistema di declinazione dei sostantivi e aggettivi e conosce, inoltre, un ampio utilizzo di sostantivi composti. Essa fu studiata e codificata da grammatici indiani a partire dal tardo periodo dei Veda (VIII secolo a.C. circa), culminando nella grammatica redatta dal grande grammatico indiano Pāṇini attorno al IV secolo a.C. Tradizione grammaticaleLa tradizione grammaticale del sanscrito (vyākarana, una delle sei discipline del cosiddetto Vedāṅga) iniziò nel tardo periodo vedico indiano e trovò il proprio punto di massima espressione intellettuale con la codificazione grammaticale dell'Aṣṭādhyāyī da parte del grammatico Pānini, un'opera consistente di 3990 aforismi. L'autore sanscrito Kātyāyana compose i Vārtikas (le spiegazioni) di Pānini. Patañjali, vissuto tre secoli dopo Pānini, scrisse il Mahābhāshya, il Grande commentario sull'Aṣṭādhyāyī e sui Vārtikas. È grazie all'opera di questi tre antichi grammatici del sanscrito che la tradizione grammaticale di questa lingua in tale epoca prende il nome di Trimuni vyākarana o Grammatica dei tre saggi. In ultimo, al fine di spiegare ulteriormente il significato dei suddetti sutras, gli autori Jayaditya e Vāmana scrissero nel sesto secolo dopo Cristo il commentario Kāsikā. La grammatica pāniniana trova uno dei propri fondamenti nei cosiddetti quattordici Shiva sutras o Maheshvara sutras. Essi espongono sinteticamente l'organizzazione dei fonemi della lingua sanscrita. Degna di nota per lo sviluppo della riflessione grammaticale sulla lingua sanscrita fu nel XII secolo l'opera del grammatico Kaiyata che scrisse un commentario al Mahābhāshya di Patañjali. Maggiormente influente fu il Rupāvatāra, opera di Dharmakīrti, il quale divulgò versioni più semplici della grammatica sanscrita. Durante il diciassettesimo secolo l'opera di grammatica sanscrita più importante fu il Siddhānta kaumudi di Bhattoji Dīkshita, assieme al quale esistono versioni derivate per opera del grammatico Varadarāja. Lo studio del sanscrito da parte di studiosi europei comincia nel diciottesimo secolo con Jean François Pons e altri studiosi minori. Bisognerà attendere il diciannovesimo secolo per opere esaustive. Fra i più importanti studiosi europei del periodo ci sono Otto Boehtlingk, William Dwight Whitney e Jacob Wackernagel. Tradizionalmente il sanscrito utilizza la scrittura devanāgarī, le cui consonanti possiedono una schwa /ə/ come vocale inerente e dei diacritici per indicare le vocali brevi e lunghe quando non sono in forma isolata. Possiede pure dei diacritici ausiliari per indicare fenomeni fonetici come la nasalizzazione della vocale (ँ), fusioni calligrafiche di lettere per indicare i cluster consonantici o consonanti doppie (ex. "rka" र्क, "krai" क्रै, ṭre ट्रे ecc.) e una riga orizzontale, da scrivere per ultima, che in presenza di alcune lettere si spezza. Sotto si indica la romanizzazione/pronuncia figurata delle lettere, basata sul sistema di William Wilson Hunter, detto "sistema hunteriano".
VerbiClassificazione dei verbiIl sanscrito ha dieci classi verbali suddivise ulteriormente in due grandi categorie: i verbi tematici e atematici. Il primo gruppo aggiunge una a tra il tema e la desinenza, rendendo così i verbi più stabili; il secondo gruppo non aggiunge vocale tematica. Nel sanscrito vedico, oltre alle dieci classi verbali, ce n'è una in più: si chiama il Lata, da लाति lāti, traducibile in italiano con prendere, ricevere o attribuire. L'elemento base di un verbo sanscrito è la radice, alla cui base possono essere aggiunti altri elementi grammaticali che danno sfumature precise e particolari, come prefissi, suffissi, infissi, raddoppiamenti, ecc. Molti termini sanscriti possono essere fatti risalire a una precisa radice verbale o a varie radici di uno stesso campo semantico. Questo fenomeno, sebbene più limitatamente, si presenta in molte altre lingue; in sanscrito, tuttavia, un'antica tradizione di codificazione grammaticale e riflessione filosofica sul linguaggio ha consentito la circoscrizione di determinate aree di significato facendole discendere da un'unica radice vocalico-consonantica.
Il sanscrito è in grado di fornire termini semanticamente analizzabili suddividendoli in fonemi portatori ciascuno di un particolare significato; il processo di formazione di una parola sanscrita tende alla regolarità e alla trasparenza, ed è peculiarità di questa lingua. Di seguito un esempio di verbo coniugato: si tratta della radice vad, che significa parlare, dire, coniugata nella sesta classe, ovvero all'indicativo presente, al singolare:
Sistema dei temi dei tempi verbaliI tempi verbali del sanscrito sono organizzati in quattro sistemi basati sulle differenti forme del tema verbale utilizzate nella coniugazione del verbo stesso. I quattro sistemi dei temi dei tempi verbali sono i seguenti:
Sistema del tema del presenteIl tema del presente ci permette di ricavare il presente e l'imperfettivo indicativo, l'imperativo, l'ottativo e alcune antiche forme di congiuntivo.
(!) Oggigiorno, l'ottava classe è considerata come una sottoclasse della quinta. (!) La prima, la quarta, la sesta e la decima classe sono per i verbi tematici, le altre per i verbi atematici. Sistema del tema del perfettoIl perfetto ci permette di ricavare perfetto e piuccheperfetto indicativo, e participio passato. Sistema del tema dell'aoristoL'aoristo indicativo, l'ottativo precativo e l'ingiuntivo. Il sistema dell'aoristo include l'aoristo propriamente detto (con aspetto puntuale, il nostro passato remoto; es. abhūh, tu fosti) e alcune forme di una più antica forma di ottativo precativo e di ingiuntivo, utilizzato quasi esclusivamente con il prefisso "mā" nelle proibizioni, ad esempio mā bhūh, non essere! Il sistema dell'aoristo conosce le tre seguenti diverse forme:
Sistema del tema del futuroIl sistema del futuro è formato tramite l'uso del suffisso sya oppure iṣya (nel quadratino vi è una s con un puntino sotto: suono semi-retroflesso) più un cambiamento apofonico. Esso include il condizionale, formato dal tema del futuro. Il condizionale si riferisce ad azioni ipotetiche e trova un uso sporadico nel sanscrito classico. Come forma, il condizionale è una sorta di "imperfetto" costruito sul tema del futuro: infatti, si costruisce premettendo l'aumento temporale al tema del futuro e utilizzando le desinenze secondarie. es: kr "fare" (quinta classe), futuro "kariṣyami" farò, condizionale "akariṣyam" farei tap "riparare" (prima classe), futuro "tapsyami" riparerò, condizionale "atapsyam" riparerei ParticipiIl sanscrito conosce un uso molto esteso dei participi. I participi passati vengono formati direttamente dalle radici verbali di molti verbi, con l'eccezione dei verbi della decima classe, la cui forma viene presa dal tema del presente. Tutti i participi, tranne il presente, hanno un senso perfettivo, ovvero indicano l'azione compiuta, conclusa e possono liberamente sostituire le forme finite dei verbi coniugati al passato. Participio presenteIl participio presente è formato dal tema del presente ed è formato in modo differente a seconda che il verbo sia classificato come parasmaipada (diatesi attiva) o ãtmanepada (diatesi media). Il participio presente non può sostituire un verbo in forma finita. Il participio presente possiede un senso imperfettivo indicando un'azione colta nel suo svolgersi. Participi passati attiviSono formati in modo regolare tramite il suffisso -vant applicato al participio passato passivo. Modificano il soggetto del verbo dal quale sono formati. Participi passati passiviIl participio passato passivo (ktãnta) è formato posponendo la sillaba -ta alla radice del verbo, in certi casi preceduta dalla vocale -i-. Per diversi verbi anche la radice stessa viene modificata. Ad esempio, la radice vac, parlare, dà origine al participio passato ukta. Participio perfettoIl participio perfetto è un participio passato di senso attivo ed è raramente utilizzato nel sanscrito classico. Participio aoristoIl participio aoristo, usato nel sanscrito vedico, fu perso nel sanscrito classico. Participio futuroIl participio futuro viene formato a partire dal tema del futuro nello stesso modo in cui il participio presente è formato dal tema del presente. Il participio futuro descrive un'azione non ancora successa ma che potrebbe accadere in un futuro ipotetico. GerundivoIl gerundivo (da non confondere con il gerundio) può essere pensato come un participio prescrittivo passivo futuro indicante il fatto che la parola modificata dovrebbe essere oggetto dell'azione da parte del participio. Il suo significato è simile al gerundivo latino, ovvero esprime l'idea di "dovere", o "necessità". Esempio: il latino "liber legendus" si tradurrà come "il libro da leggere", "il libro che deve essere letto". Si ottiene in sanscrito usando la radice con grado guṇa o vṛddhi più il suffisso -ya-, -tavya-, -itavya-, -anīya-; -tavya- e -anīya- si attaccano alla radice guṇata, mentre -ya- a radici vṛddhate, guṇate oppure deboli; alcune radici in vocale aggiunguno -tya-, ma solo nelle forme cosiddette deboli. Esempi: dalla radice kṛ (fare, produrre) si ottiene kartavya-, karaṇīya-, kārya-, kṛtya-, da farsi, da compiere. Dṛś- (vedere) dṛśya, da vedersi, degno di essere visto, che deve essere visto; ji- (vincere) jetavya oppure jeya-, destinato a essere vinto. Coniugazione verbaleOgni verbo possiede una voce grammaticale di senso attivo (diatesi attiva), una di senso passivo (diatesi passiva) e una di senso medio (diatesi media). Il medio può essere inteso come un'azione che un soggetto compie per sé stesso dando un'idea di riflessività. Senso attivo: il giocatore (soggetto) sistema (verbo in forma attiva) il pallone (oggetto) per battere la punizione. Senso passivo: il pallone (soggetto) viene sistemato (verbo in forma passiva) dal giocatore (agente) per battere la punizione. Senso medio: il giocatore (soggetto) si aggiusta (verbo in forma media) il pallone (oggetto) per battere la punizione. Esiste inoltre una voce impersonale che può essere descritta come una voce passiva dei verbi intransitivi. Il verbo sanscrito ha un modo indicativo, un ottativo e un imperativo. Anticamente era presente anche un modo congiuntivo caduto tuttavia in disuso con l'avvento del sanscrito classico. La tabella che segue è un prospetto parziale delle principali forme verbali che possono essere create a partire da una singola radice del verbo. Non tutte le radici prendono tutte le forme; alcune radici spesso sono limitate ad alcuni temi verbali. Le forme verbali della tabella sono tutte in terza persona singolare e possono essere coniugate in tre persone e tre numeri: singolare, duale e plurale. Radice: bhū (essere, diventare, essere in divenire), radice verbale della prima classe tematica. Tema del presente: bhava- Tema passivo: bhūya- Tema del futuro: bhavishya-
Tenendo conto del fatto che ciascuna forma di participio è declinata in sette casi nominali, tre numeri e tre generi e ciascun verbo è coniugato anch'esso in tre persone, tre numeri, e poi in temi di forma primaria, causativa e desiderativa per questa radice quando considerati assieme i participi hanno oltre un migliaio di forme. Esempio di coniugazione atematica: Radice: dviṣ-, dvéṣ- (odiare)
Terminazioni delle coniugazioniLe terminazioni delle coniugazioni in sanscrito esprimono la persona, il numero e la voce. Le differenti forme delle terminazioni vengono usate in relazione a quale tempo e modo verbale sono attribuite. I temi verbali o le stesse terminazioni possono essere modificate o in qualche modo oscurate dalle regole del sandhi.
Le terminazioni primarie sono utilizzate con il presente indicativo e le forme del futuro. Le terminazioni secondarie sono usate con l'imperfetto, il condizionale, l'aoristo e l'ottativo. Le terminazioni del perfetto e dell'imperativo vengono usate rispettivamente con il perfetto e l'imperativo. Flessione del sostantivoIl sanscrito è una lingua flessiva e per quanto riguarda il genere grammaticale distingue in femminile, maschile e neutro e suddivide in tre numeri (singolare, duale e plurale). Possiede otto casi: nominativo, vocativo, accusativo, strumentale, dativo, ablativo, genitivo e locativo. Il numero effettivo delle declinazioni è oggetto di dibattito. Pānini identifica sei cosiddetti kārakas corrispondenti ai casi nominativo, accusativo, dativo, strumentale, locativo e ablativo. Pānini stesso nella sua opera Ashtādhyāyi (I.4.24-54) li definisce come segue: 1 Apādāna (letteralmente "prendere il via"): è l'equivalente del caso ablativo, che indica un oggetto stazionario o fermo dal quale il movimento prende il via rispondendo alla domanda implicita "da chi?", "da cosa?", "da dove proviene l'azione espressa dal verbo?" 2 Sampradāna (donazione o cessione): è l'equivalente del caso dativo, che indica il destinatario o il ricevente in un'azione di dono o conferimento di qualcosa in senso concreto o astratto dando risposta alla domanda implicita "a chi?", a cosa?", "verso chi o cosa?". 3 Karaṇa ("strumento"): equivale al caso strumentale e indica il mezzo con cui si compie una determinata azione. 4 Adhikaraṇa ("ubicazione"): è il caso locativo e indica dove si trovi qualcuno o qualcosa rispondendo alla domanda "dove?". 5 Karman ("il fatto/"l'oggetto"): è il caso accusativo rispondente alla domanda implicita "chi è oggetto dell'azione?", "che cosa è oggetto nell'azione?". 6 Kartā (colui che agisce): è il nominativo, il caso che risponde alla domanda implicita "chi compie l'azione?", "cosa compie l'azione?" (on the basis of Scharfe, 1977: 94) I casi possessivo (Sambandha) e vocativo sono assenti nella grammatica redatta da Pānini. In questo articolo sono suddivisi in cinque declinazioni. La declinazione alla quale un nome appartiene è in buona parte determinata dalla forma del sostantivo medesimo. Declinazione del sostantivo e dell'aggettivoNella tabella che segue è dato lo schema fondamentale di utilizzo dei suffissi della declinazione validi per buona parte dei sostantivi e aggettivi. A seconda del genere grammaticale e della terminazione in consonante o vocale della radice non flessa del sostantivo o dell'aggettivo, esistono determinate regole dette del sandhi (armonia eufonica). Tra parentesi le terminazioni dei casi di genere neutro, le altre sono valide per i generi maschile e femminile. Vengono date anche le versioni in scrittura sillabica devanagari e la traslitterazione in IAST.
Temi in A-I temi in "a"(/ə/ or /aː/) comprendono una vasta classe di sostantivi. Di norma i sostantivi appartenenti a questa classe, con tema non flesso terminante in A breve (/ə/), sono maschili o neutri. I sostantivi terminanti in A lunga (/aː/) sono in massima parte femminili. Gli aggettivi con tema in A prendono il genere maschile e neutro in A breve (/ə/), e quello femminile in A lunga (/aː/). Questa classe è così vasta perché comprende anche il tema in O- del protoindoeuropeo.
Temi in I ed U
Temi in vocale lunga
Temi in ṛI temi in ṛ sono prevalentemente derivati della terminazione che indica il concetto di agente come dātṛ "donatore", sebbene includano termini di parentela quali pitṛ́ "padre", mātṛ́ "madre", and svásṛ "sorella".
NumeraliI numeri da uno a dieci sono: 0 śunya (zero) 1 éka 2 dvá 3 trí 4 catúr 5 pañca 6 ṣáṣ 7 saptá, sápta 8 aṣṭá, áṣṭa 9 náva 10 dáśa. I numeri dall'uno al quattro sono declinabili. Éka è declinato come un aggettivo pronominale, ovviamente mancante della forma duale. Dvá appare soltanto in forma duale. Trí e catúr vengono invece declinati in modo irregolare.
Tavola con paragoni di numerali
Pronomi personali e determinativiI pronomi di prima e seconda persona sono in buona misura declinati nello stesso modo. Nota: dove vengono date due forme, la seconda è enclitica e alternativa alla prima. Gli ablativi al singolare e al plurale possono essere estesi tramite la sillaba -tas; in tal modo si ottengono forme come mat o mattas, asmat o asmattas.
Il dimostrativo "ta", declinato sotto, è usato anche come pronome di terza persona.
Termini composti (samāsa)Un'altra caratteristica degna di nota della lingua sanscrita, e in particolare del suo sistema nominale, è l'uso molto comune di parole composte, alcune delle quali possono arrivare a essere formate da un numero considerevole di termini assemblati fra loro. I termini composti si presentano in diverse modalità di composizione dei termini. Ogni sostantivo o aggettivo si presenta nella sua forma tematica debole con solo l'ultimo elemento del termine composto a ricevere la flessione del caso grammaticale. Alcuni esempi di costruzione di termini composti sono: AmreḍitaUn termine composto consistente nella stessa parola ripetuta due volte, con la peculiarità di avere l'accento sul primo termine del termine composto. [1] Gli amreditas vengono utilizzati per esprimere ripetitività; per esempio, da dív (giorno) si ottiene divé-dive ("giorno dopo giorno", "quotidianamente") e da devá ("Dio") si ottiene deváṃ-devam oppure devó-devas ("Dio dopo Dio").[2] Archiviato il 28 giugno 2016 in Internet Archive. AvyayibhāvaIl primo membro di questa tipologia di termine composto è indeclinabile; a questo viene aggiunto un secondo termine di norma declinabile, in modo tale da rendere il nuovo termine così composto, a sua volta nel suo complesso indeclinabile. Esempi: yathā+śakti, ecc. Nei termini composti avyayibhāva, il primo membro del termine composto ha un ruolo primario (pūrva-pada-pradhāna) e l'intera parola composta si comporta come un termine indeclinabile a causa della natura grammaticale della prima parte indeclinabile del composto nominale. Tatpuruṣa (composti determinativi)Diversamente dai composti avyayibhāva, nei composti Tatpuruṣa il ruolo primario è detenuto non dal primo ma dal secondo membro del termine composto (uttara-pada-pradhāna). Esistono molti tatpuruṣas (uno per ciascun caso nominale, oltre ad alcuni altri). In un tatpuruṣa, il primo componente del termine composto è in una relazione logica con l'altro in un modo altrimenti esprimibile attraverso un consueto caso nominale esistente. Per esempio, un "parafango" in italiano è un composto ablativo, il parafango è infatti un oggetto che para (protegge) DAL fango. Karmadhāraya (composti descrittivi)È una varietà di Tatpuruṣa considerato separatamente. La relazione tra il primo e l'ultimo membro di un termine composto è di apposizione, attributiva o avverbiale. DviguIn un composto karmadhāraya una parte si comporta come aggettivo per l'altra. Se la parte che si comporta come aggettivo è un numero si ha un termine composto dvigu. Il termine "dvigu" stesso è in realtà un termine composto: dvau+gāvau. Nei composti dvigu, la principale è la parte finale, esattamente come nei composti Tatpuruṣa. Dvandva (composti coordinativi)Questi consistono di due o più temi del sostantivo connessi nel senso attraverso una congiunzione (come nella congiunzione italiana "e"). Esistono due tipologie di costruzione di "dvandva" in sanscrito. La prima è chiamata itaretara dvandva, una parola composta enumerativa il cui significato si riferisce in egual misura a tutti i membri del termine composto. Il termine composto che ne risulta è in numero duale o plurale e prende il genere grammaticale dell'ultimo membro della parola composta. Esempi: Rāma-Lakşmaņau – Rama e Lakshmana, oppure Rāma-Lakşmaņa-Bharata-śatrughnāh – Rama, Lakshmana, Bharata e Satrughna. La seconda tipologia è chiamata samāhāra dvandva, una parola composta che ha valore collettivo, il cui significato si riferisce a una collezione ovvero a un insieme dei suoi membri costituenti. La parola composta che ne risulta è in numero singolare e sempre di genere neutro. Pāņipādam – "membra", letteralmente mani e piedi, da pāņi = mano e pāda = piede. Secondo alcuni grammatici esiste una terza tipologia di dvandva chiamata ekaśeşa dvandva o composto residuale. Essa prende le forme duale e plurale della sola parte finale del composto, ad esempio: pitarau per "mātā" + "pitā", madre+padre= genitori ("padri", includendo con tale termine duale sia il genitore maschio sia quello femmina) In ogni caso secondo altri grammatici lo ekaśeşa non è affatto un termine composto. Bahuvrīhi (composti esocentrici)Bahuvrīhi, o letteralmente "molto-riso", indica una persona ricca — qualcuno che possiede molto riso o usando una metafora nota della lingua italiana: qualcuno che ha molto "grano". I composti di tipologia Bahuvrīhi si riferiscono a un sostantivo composto nel quale non sia dato conoscere il possessore; in altri termini, un nome composto che si riferisce a qualcosa che non è in sé stessa parte del termine composto. Ad esempio, "senzatetto" (in italiano nel senso di persona senza fissa dimora). Dal momento che nel termine composto "senza-tetto" non è presente il soggetto che è privo del tetto (esattamente come il termine sanscrito molto-riso non indica una specie di riso ma la natura di chi ne possiede molto) e il termine non indica un tipo di tetto, si può parlare in questo caso di termine composto di tipologia Bahuvrīhi. I termini composti Bahurvrīhis possono spesso essere resi in italiano attraverso un participio presente oppure una forma perifrastica del tipo "(colei/colui che possiede..." per esempio "possidente molto riso", come anche "colei/colui che possiede molto riso". Madhyama-pada-lopī-samāsaÈ una varietà di composto Karmadhāraya Tatpuruṣa nel quale la parte mediana o centrale scompare. Esempio: devapūjakaḥ+brāhamaṇaḥ = devabrāhamaṇaḥ; Śrīyukta+Rāmaḥ = Śrīrāmaḥ. Upapada-samāsaSi tratta di una varietà di composto Tatpuruṣa nella quale i sostantivi si fondono con dei verbi come in Kumbham+karoti = kumbhakāraḥ. Aluk-samāsaCaso nel quale la terminazione non scompare: ātmane+ padam = ātmanepadam. SintassiGrazie al complesso sistema di declinazioni l'ordine delle parole nella frase è piuttosto libera nel sanscrito, sebbene sia presente una tendenza a organizzare la frase sul modello SOV. Esistono inoltre alcune regole sintattiche al fine di ridurre le possibili ambiguità in una qualsiasi proposizione. Bibliografia
Topics in Sanskrit morphology and syntax
Voci correlateCollegamenti esterni
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