Elenco (logica formale)«Sono stato come un tafano, un insetto che punge un animale sonnacchioso...Io sono stato l'insetto che vi ha tenuto svegli, se me ne vado, voi vi addormenterete e finirete nell'ottusità.[1]» Elenco è un termine che deriva dal greco antico ἔλεγχος?, èlenchos ripreso dal tardo latino elenchus[2] e che si ritrova nella logica formale con il significato di argomentazione, detta anche redarguizione, che mira a confutare l'errore presente nell'affermazione dell'interlocutore. L'elenco socraticoIn particolare nel dialogo socratico l'elenco serve non tanto a vincere sull'avversario della discussione, com'era ad esempio nell'eristica sofistica, quanto a convincerlo di essere in contraddizione con se stesso muovendo proprio da quanto egli sosteneva all'inizio. L'elenchos può essere distinto in due tipi: diretto e indiretto. Il primo vuole arrivare a dimostrare l'assurdità o la contraddittorietà di ciò che sostiene l'interlocutore nella discussione dimostrandogli che le sue argomentazioni lo portano a contraddire quanto sosteneva all'inizio. L'elenchos indiretto è invece tipico del dialogo socratico che attraverso una serie di domande e risposte dimostra che se A implica B e B implica C e D queste sono contraddittorie tra loro o contraddicono la tesi di partenza[3] In particolare il dialogo socratico condotto attraverso brevi domande e risposte, caratteristica questa che lo distingueva dal discorso torrentizio dei sofisti, era il continuo domandare di Socrate su quello che stava affermando l'interlocutore; sembrava quasi che egli andasse alla ricerca di una precisa definizione dell'oggetto del dialogo. È questa l'ironia di Socrate che, per non demotivare l'interlocutore e per fare in modo che egli senza imposizioni si convinca, finge di non sapere quale sarà la conclusione del dialogo, accetta le tesi dell'interlocutore e le prende in considerazione, portandola poi ai limiti dell'assurdo in modo che l'interlocutore stesso si renda conto che la propria tesi non è corretta. Chi dialoga con Socrate tenterà varie volte di dare una risposta precisa ma alla fine si arrenderà e sarà costretto a confessare la sua ignoranza. Proprio questo sin da principio sapeva e voleva Socrate: la sua non era fastidiosa pedanteria ma il voler dimostrare che la presunta sapienza dell'interlocutore fosse in realtà ignoranza.[4] Socrate dunque inizia di solito col porre all'interlocutore una scelta in un'alternativa: «La giustizia è migliore dell'ingiustizia?» (Repubblica); «È giusto fuggire di prigione?» (Critone) o più frequentemente egli ricorre alla domanda tì estì, "che cos'è" [quello di cui parli]? «Cos'è la temperanza?» (Carmide); «Cos'è il coraggio?» (Lachete) Le domande di Socrate non puntano ad ottenere una precisa definizione del termine[5] di cui si sta discutendo e nemmeno a verificare se il suo interlocutore abbia adeguata conoscenza di ciò di cui si sta parlando poiché i due protagonisti del dialogo conoscono genericamente il significato del concetto in esame. Socrate in realtà chiede da un lato una definizione analogica che fornisca significati equivalenti del termine e dall'altro vuole ricercare gli attributi propri, escludendo gli impropri, del concetto in modo da capire perché una singola cosa è comune a molti individui singoli, come dimostra il fatto che a molte cose viene attribuito un nome comune per cui si può pensare che vi debba essere una natura comune che apparenti le cose[6]. La definizione quindi vuol far vedere come ci sia una relazione di identità- proprietà tra l'elemento comune alle cose e l'unico nome con cui vengono chiamate[7]. Questa interpretazione va naturalmente riferita al valore analogico delle definizioni socratiche altrimenti si rischia di attribuire a Socrate la costruzione metafisica ontologica di Platone.[8] Note
Bibliografia
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