Corpo Volontari Italiani
Il Corpo Volontari Italiani è stata una grande unità militare pluriarma (fanteria, artiglieria, genio, marina, sanità, reali carabinieri, guardia mobile, servizio telegrafico e giustizia militare) del Regio esercito italiano composta da 43.543 uomini, quasi interamente da volontari compresi alcune centinaia di stranieri, e posta al comando del generale Giuseppe Garibaldi che operò nel corso della terza guerra di indipendenza del 1866 sul fronte del Trentino contro l'impero austriaco. Il repartoLa formazione del CorpoIl 6 maggio 1866, in previsione della guerra con l'impero austriaco, con decreto del re Vittorio Emanuele II, fu istituito il "Corpo Volontari Italiani" affidato a Garibaldi - alla stregua del corpo di volontari dei Cacciatori delle Alpi, che aveva combattuto nella seconda guerra d'indipendenza - insieme alle commissioni militari, costituite da ufficiali dell'esercito regolare e dell'ex garibaldino, preposte all'arruolamento dei quadri dei primi cinque reggimenti di fanteria. In data 16 maggio, da Firenze capitale, venne emanata una circolare da parte del Ministero della guerra che fissava l'ordinamento del Corpo, stabilendone la consistenza in 20 Battaglioni, che avrebbero formato 10 Reggimenti[1]. Il 20 maggio iniziarono, molto lentamente, i reclutamenti della truppa. Riguardo a questa precaria situazione scrive Virgilio Estival, tenente di origine francese della 12ª compagnia del 2º Reggimento Volontari Italiani: Tutte le provincie italiane diedero il loro contingente; ma quelle che più di tutte si distinsero, furono il Veneto e le Romane. Il Veneto che aveva dato dei molti dei suoi figliuoli all'armata regolare, diede ancora più di 12.000 volontari a Garibaldi; e mi rammento con vera soddisfazione che più di due terzi degli uomini che formavano la compagnia che fui incaricato di organizzare appartenevano alle provincie allora soggette all'Austria. Si sentiva che questi uomini sacrificavansi per avere il diritto di rientrar liberi nel proprio paese, per riconquistare il domestico focolare, per abbracciare liberamente la loro famiglia […] Alcuni reggimenti che formavansi nelle provincie meridionali erano quasi esclusivamente composti di Romagnoli, i quali al parer mio formavano la più energica popolazione d'Italia. In genere, tutte le provincie fecero il proprio dovere. Firenze diede quasi 4.000 volontari, Torino più di 3.000, Parma più di 1.000, Ferrara che non ha che una popolazione di 25.000 abitanti, ne diede quasi 1.000. Lugo che soltanto ne ha 9.000 ne diede 500. Faenza 300. In quattro giorni Bologna ne ebbe iscritti più di 1.500, Genova 600, Ancona 450. […] “È una leva in massa” disse il generale Pettinengo “noi non la vogliamo”[2]. I volontari bresciani erano all'incirca 1.000 provenienti in buon numero dal Lago d'Iseo e anche dalla Valle Sabbia. Vista la notevole affluenza di giovani volontari che in breve raggiunsero la consistenza di 40.000 unità, si provvide alla formazione di altri cinque reggimenti e alla sospensione del reclutamento. Furono creati sette centri di addestramento per i volontari, a Como, Varese, Bergamo, Gallarate, Molfetta, Terlizzi e a Bari, i quali in breve furono sommersi da una moltitudine di giovani desiderosi di essere formati e armati per la nuova battaglia. Per i più l'impatto con la nuova realtà militare fu mortificante: ci si accorse subito che all'interno delle caserme mancava tutto il necessario per l'addestramento. Ovunque regnava la disorganizzazione e nonostante le lamentele dei comandanti al Ministero della guerra non si riuscì a porvi rimedio. Mancavano le divise, ogni sorta di vestiario e cibo, le tende, le cucine da campo, i mezzi di trasporto, muli e cavalli, le armi, le munizioni, carte geografiche aggiornate, le attrezzature sanitarie e la buffetteria. Inoltre tra le file degli stessi volontari abbondavano non solo i volenterosi, spinti all'arruolamento da seri ideali, ma anche una valanga di mediocri e perfino alcuni giovinastri avventurieri con le fedi penali sporche. I quadri ufficiali, formati in gran parte nella guerra del 1859 e nella campagna meridionale del 1860, e i sottufficiali, seppur costituiti da gente di valore, dimostravano nel complesso un'impreparazione militare e organizzativa. Alcuni comandi erano stati affidati perfino a deputati del parlamento che mai avevano visto le armi o a ex guardie nazionali mobili adibite alla lotta al brigantaggio. Il 22 giugno la forza complessiva del Corpo dei Volontari Italiani contava esattamente 38.041 uomini, 873 cavalli, 24 cannoni e due cannoniere a vapore (Solferino e San Martino)[3]. ArmamentoI volontari vestivano una camicia rossa e pantaloni regolamentari del Regio Esercito. La maggior parte dell'armamento individuale della fanteria del Corpo Volontari Italiani era costituito da vecchi fucili ad avancarica a canna liscia (francesi M1822T, M1840 e M1842 in calibro 18mm; piemontesi M1842 e M1844 in calibro 17,5mm). Erano armi molto lunghe e pesanti, capaci di un tiro utile fino ai 2-300 metri, munite di una lunga baionetta a manicotto con ghiera. Si tratta di diversi modelli a canna liscia di fucile ad avancarica con sistema di accensione a percussione con luminello e capsula fulminante, decisamente antiquati per l'epoca. Solo alla fine della campagna giunsero dall'arsenale di Napoli alcune moderne (ed ottime) carabine rigate Enfield inglesi[4]. In generale la situazione dei garibaldini era pessima, scrive nuovamente Virgilio Estival, tenente della 12ª compagnia del 2º Reggimento Volontari Italiani: “Il primo reggimento era il solo il quale, per la intelligente iniziativa del suo capo che di privata sua autorità fece contratti con fornitori civili, fosse vestito. Il secondo era mal vestito, e come già dissi, i due battaglioni di ultima formazione quasi nudi. Il terzo reggimento aveva soltanto 1.000 camicie e un numero uguale di fucili, il giorno che Garibaldi ne ispezionò il deposito. Il quarto era vestito un poco meglio, ma armato coi fucili della Guardia nazionale; infatti la Guardia nazionale di Brescia diede 1500 fucili ai volontari, 1.700 ne diede quella di Bergamo, ed io stesso vidi cittadini bresciani armare dei volontari coi propri fucili!…Il quinto trovatasi in una situazione più infelice ancora, e più di un terzo dei suoi uomini erano mezzi nudi e senza fucili, quando Garibaldi andò a ispezionarlo. Quanto ai reggimenti formatisi nelle provincie meridionali, può dirsi senza tema d'ingannarsi che essi erano equipaggiati nel medesimo modo; e come dicevami a questo proposito uno dei membri della commissione: “solo in cotesta circostanza il governo non aveva fatto ingiustizia per nessun dei reggimenti, tutti erano stati trattati con una rigorosa imparzialità”[2]. I vertici
L'organizzazioneIl 3 settembre del 1866 il Quartier Generale del Corpo Volontari Italiani con sede a Brescia certificava la sua composizione:
Ogni reggimento era composto da 16 compagnie di circa 180 fucilieri o “rossi” suddivise in 4 battaglioni di 4 compagnie ognuno. I dieci reggimenti, su proposta di Garibaldi, furono poi raggruppati in 5 brigate:
StoriaL'impiego tatticoInizialmente Vittorio Emanuele II d'intesa con Garibaldi avevano previsto come campo d'impiego per il Corpo Volontari Italiani, piano poi abortito dallo Stato Maggiore dell'esercito in quanto ritenuto troppo spregiudicato, la zona balcanica che sarebbe stata raggiunta con un massiccio sbarco in Dalmazia appoggiato dalla marina militare. Da qui i garibaldini, sostenuti da patrioti locali e approfittando delle ribellioni che avrebbero dovuto sorgere man mano con il procedere dell'avanzata, attraverso l'Istria e la Slovenia avrebbero mosso verso nord portando la guerra nel cuore del territorio austriaco. L'impiego tattico del Corpo fu definitivamente chiarito il 19 giugno, nell'imminenza della dichiarazione di guerra, quando da Cremona, il Quartier Generale dell'esercito spedì la seguente lettera al generale Garibaldi, acquartierato dal giorno precedente a Salò in un albergo dell'attuale piazza della Fossa: "L'intenzione di Sua Maestà è che alla Signoria Vostra sia affidato fino da adesso la difesa del Lago di Garda e dei vari paesi, che, dal Tirolo, mettono nella valle di Lombardia. Al suo comando sono quindi sottoposti, siccome ne avrà già avuto avviso, sia la flottiglia, sia l'artiglieria, recentemente inviata per l'armamento delle batterie locali. Rotte le ostilità, e di mano in mano che le forze sotto i suoi ordini si completeranno in numero, ed in organizzazione, ella agirà contro gli austriaci, e pel Lago, e pelle montagne, e come meglio crederà. Suo scopo sarà di penetrare nella valle dell'Adige, e di stabilirvisi, in modo da impedire ogni comunicazione fra il Tirolo e l'armata austriaca in Italia. Se le popolazioni del Tirolo italiano si mostrassero favorevoli alla nostra causa, ella è autorizzato a trarne partito. In questo suo campo d'azione è necessario che ella tenga presente la dichiarazione emanata dal governo, che sarebbe rispettata la neutralità Svizzera, a condizione, ben inteso, che la sia pure dall'armata nemica. Il generale d'armata Alfonso Lamarmora”. Il fronte affidato a Garibaldi si estendeva dal confine con la Svizzera, iniziando a nord in corrispondenza del Passo dello Stelvio, e, seguendo la linea di confine con l'Alto Adige e con il Trentino, proseguendo fino al Passo del Tonale, giungeva sulla rive del Lago di Garda in corrispondenza di Limone sul Garda. Da qui seguitando lungo la sponda occidentale del lago arrivava poi a Desenzano. Garibaldi era intenzionato a penetrare in Trentino attraverso l'unica strada agevole esistente a sud, ossia quella della Valle del Chiese. Scardinato il sistema difensivo dei forti austriaci di Lardaro, il Generale prevedeva di scendere a Tione indi, procedendo per Stenico e Vezzano, occupare la città di Trento[4]. Originalmente era stato pure progettato uno sbarco in forze sulla sponda veronese per prendere alle spalle il grosso delle forze austriache schierate all'interno del quadrilatero, ma vista l'impossibilità di attuazione, date le pessime condizioni in cui si trovava la flottiglia del lago di Garda, anche questo piano fu abbandonato per non veder colare a fondo tutta la truppa in un sol colpo! Gli avversari austriaciGaribaldi si trovava ad affrontare i reparti comandati dal generale barone Franz Kuhn von Kuhnenfeld, aventi il Quartier Generale presso Trento. Costui era un ufficiale di 49 anni d'età, considerato dai più un vero specialista della guerra di montagna, per non dire il miglior generale austriaco in attività, criticato da pochi come un militare troppo sopravvalutato nelle sfere degli alti comandi di Vienna. Sferzante rimane il giudizio del generale Carl Möring, commissario imperiale, che non teneva in grande stima il collega, scrive: “Qui si conosce bene il generale Kuhn; la fama a buon mercato è ciò che ha più caro”. Il Kuhn sapeva il fatto suo e poteva contare sull'8ª Divisione composta da circa 15-16.000 uomini, o baionette come si diceva allora, ben preparati ed equipaggiati, raggruppati in una brigata e sei mezze brigate di 21 battaglioni di fanti e 25 compagnie di tiratori con 1600 cavalli e muli, 32 pezzi d'artiglieria di linea e 127 cannoni in fortezza. Ogni compagnia austriaca era formata da oltre 400 uomini. Capo di Stato Maggiore austriaco fungeva il luogotenente colonnello barone Johann von Dumoulin, capo dell'artiglieria il luogotenente colonnello Barth, direttore del genio il luogotenente colonnello von Wolter[4]. L'impero austriaco, al contrario dell'Italia, non si era fatta cogliere impreparata al conflitto e aveva provveduto nei mesi precedenti al potenziamento delle fortificazioni poste sul confine trentino e in special modo di quelle con il bresciano. Erano stati risistemati i forti di Lardaro (20 cannoni), dell'Ampola a Storo (2 cannoni), del Ponale (23 cannoni), di Nago (15 cannoni), Malcesine (6 cannoni), Buco di Vela (7 cannoni), di Strino (presso il Passo del Tonale), della Rocchetta a Riva del Garda (8 cannoni), del Gomagoi (presso il Passo dello Stelvio), del Ponte di Mostizzolo (sul torrente Noce) e di Trento. Allo stesso modo furono pure rinforzate le truppe di stanza in questi luoghi con lo schieramento delle seguenti unità militari:
Armamento della fanteria austriacaLa fanteria austriaca era armata con il Fucili Lorenz (un tipo di fucile ad avancarica a capsula, rigato, a percussione), modello 1854 tipo I e II, chiamato “Lorenz” dal nome dell'inventore dello speciale proiettile ogivale a compressione; il tipo I aveva la mira fissa a 300 passi e con alzo per maggiore distanza fino a 800 passi; il tipo II aveva la mira regolabile fino a 1000 passi. Il corpo dei “cacciatori”, ossia i Kaiserjäger, e i bersaglieri provinciali, ebbero in dotazione il fucile ad avancarica a capsula modello 1854 Jaegerstutzen, una carabina rigata da tiratore scelto ad alzo a slitta regolabile, molto precisa per i tiri a lunga distanza, con sciabola-baionetta quasi lunga quanto la carabina stessa, la speciale bacchetta veniva portata separata dall'arma appesa alla schiena. Quest'arma si rese tristemente famosa presso i garibaldini nelle campagne del 1859-1866, che la citavano spesso raccontando i loro scontri con i Kaiserjäger. La cavalleria aveva in dotazione lance, sciabole e le pistole ad avancarica, a tubetto modello 1844, e a capsula modello 1859. L'artiglieria di linea era dotata di cannoni di bronzo, rigati, armati per la bocca e la loro gittata variava dai 2250-3000 metri se di montagna o campali leggeri, o 3750 metri se campali pesanti. Molto apprezzati dalle truppe dell'artiglieria da montagna austriaca per il loro trasporto e maneggio erano le racchette o razzi, che gettavano bombe incendiarie o scoppianti, con un tiro variante da 225 a 1500 metri. Sintesi delle operazioni militari
I principali combattimenti
Le perditeDall'Elenco nominativo delle perdite sofferte dai Corpi Volontari Italiani dal giorno 25 giugno al 21 luglio 1866 pubblicato nel Supplemento al n. 254 della Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia (15 settembre 1866), si apprende che:
Biografie di garibaldini
Note
Bibliografia
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